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Bruxelles va in cortocircuito sui chip

CHIP WAR (Photo: Getty&HP)
CHIP WAR (Photo: Getty&HP)

È scontro nella Commissione Europea sulla produzione ‘made in Europe’ di microchip. Da un lato la commissaria all’Antitrust, la danese Margrethe Vestager, dall’altro il commissario al Mercato interno, il francese Thierry Breton, sono i due protagonisti di un acceso botta e risposta dal quale emerge una profonda spaccatura sull’orientamento di Bruxelles nel ritagliarsi un ruolo lungo la filiera dei semiconduttori, settore nel quale negli anni ha visto gradualmente ma costantemente diminuire la sua presenza a favore dei competitor asiatici e statunitensi. Il tema è tornato ad essere centrale dopo che la grave carenza registrata a livello globale ha messo in crisi vari settori legati all’elettronica, ma in particolare quello dell’automotive. Un dato su tutti: a causa della penuria di chip, il secondo produttore di automobili al mondo, il gruppo tedesco Volkswagen, a ottobre ha perso un terzo delle vendite (-33,5%) rispetto allo stesso mese dell’anno prima, come riporta l’agenzia Dpa. Il fianco scoperto di Bruxelles nella produzione di chip ha convinto la presidente della Commissione Ursula von der Leyen a lanciare l’European Chips Act che, tra le altre cose, prevede la nascita di una “mega-fab” in grado di produrre chip da due nanometri. Obiettivo della Commissione è quello di raggiungere la “sovranità” tecnologica, annullando la sua dipendenza dalle forniture extracomunitarie. O almeno questo sembrava il suo orientamento.

“L’autosufficienza è un’illusione. Quando si pensa alla portata di ciò che è necessario, diventa chiaro che nessun Paese e nessuna azienda possano farcela da soli”, ha detto la danese Vestager. Secondo la potente commissaria dell’Antitrust, per coprire la domanda interna dell’Ue attraverso una catena di fornitura completamente autosufficiente servirebbero investimenti tra i 240 e i 330 miliardi di dollari: “Questo significa ovviamente una cosa: chip più costosi e un impatto negativo su tutti i tipi di mercati”. Per questo secondo Vestager “va trovato il giusto equilibrio, il nostro obiettivo dovrebbe essere la diversificazione tra partner che la pensano allo stesso modo, per costruire catene di approvvigionamento resilienti su cui possiamo fare affidamento”. Il riferimento è agli Stati Uniti, “nostro partner di fiducia”, con cui durante la prima riunione del Trade and Council “abbiamo concordato di condividere i risultati delle nostre valutazioni per identificare congiuntamente lacune e vulnerabilità nella catena di approvvigionamento”. Tradotto in altre parole, il ragionamento del capo della Concorrenza è di avviare sinergie tra imprese europee e americane per diversificare la produzione in una filiera altamente frammentata e concentrata, che richiede un alto tasso di expertise, investimenti pesanti nella ricerca oltre che nell’infrastrutture produttive.

Anche perché il rischio è che le aziende siano “tentate di provare a mettere i governi l’uno contro l’altro, esaminando il panorama per vedere chi sarebbe disposto a pagare di più. Questo rischia di lasciare i contribuenti, europei o americani che siano, a pagare il conto senza trarne vantaggio”.

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A distanza di poche ore, pur senza citarla direttamente, è arrivato l’attacco del Commissario Breton: “Credere che l’Europa debba dipendere dagli altri per i chip è un’illusione. Credere di poterci accontentare del controllo parziale di questa filiera strategica è ingenuo. Credere che dovremmo perdere la produzione per l’Europa e le esportazioni nel resto del mondo sarebbe di mentalità ristretta”, ha detto Breton durante una visita in un importante ecosistema europeo dedicato ai semiconduttori a Dresda, in Germania. Dopo l’annuncio dell’European Chips Act, Breton ha iniziato un tour nei principali siti di ricerca e produzione di semiconduttori (Infineon, Bosch, Globalfoundry, NXP e Fraunhofer). Prima della visita, Breton aveva dichiarato: “La corsa globale ai semiconduttori più avanzati è una corsa alla leadership tecnologica e industriale. In questa corsa, l’Europa ha le carte in regola per stare al posto di guida: eccellenza nella ricerca, capacità di produzione industriale e visione. Con l’European Chips Act, aumenteremo la produzione dei chip più avanzati e all’avanguardia sia per la domanda europea che globale”.

La visita segue un pranzo di ieri a Berlino con il vicecancelliere e ministro delle finanze tedesco Olaf Scholz. Proprio la capitale tedesca da settimane sta facendo pressioni su Bruxelles per incrementare la capacità produttiva europea nel settore dei chip destinati al mercato dell’auto. Secondo la società di consulenza globale AlixPartners la carenza di seminconduttori costerà all’industria dell’automobile a livello globale 210 miliardi di dollari di mancati ricavi quest’anno, in netto aumento rispetto alla stima di maggio di 110 miliardi di dollari. AlixPartners prevede quindi la perdita produttiva di circa 7,7 milioni di veicoli, rispetto ai quattro milioni previsti a maggio.

L’automotive rappresenta circa il 6% di tutta la forza lavoro europea e vale il 7% del suo Pil. Pesa soprattutto in Germania, prima economia del Vecchio Continente, dove rappresenta il 15% di tutto il suo export, il 20% del suo fatturato industriale e più del 10% del suo prodotto interno lordo. E all’automotive di Berlino è fortemente connessa la manifattura componentistica italiana, dal momento che rifornisce da sola il 20% della produzione delle case tedesche.

Oggi tutto il comparto paga una ventennale sottovalutazione della filiera dei microchip da parte dell’Ue. I chip sono composti da semiconduttori, generalmente silicio, nei quali vengono poi innestati componenti elettroniche. Durante la pandemia, complici i lockdown, lo smart working e la didattica a distanza, la domanda di elettronica di consumo è esplosa, con i principali fornitori di chip che hanno preferito concentrare la produzione tutta su pc, tablet e smartphone. Al riavvio delle attività economiche e con la ripresa della domanda globale, i chip sono tornati a essere fortemente richiesti dall’automotive, ma l’offerta da mesi non è in grado di soddisfare la domanda.

Chiaramente la carenza di chip colpisce tutti. Il mercato automobilistico francese
è sceso di oltre il 20%, quello giapponese del 30%. Le vendite della statunitense General Motors sono calate per la prima volta a settembre negli ultimi quattro trimestri. L’elenco degli stop alla produzione nelle ultime settimane è sterminato. Ford, Toyota, Subaru, VolksWagen, Renault, Stellantis: non c’è una sola casa che non abbia interrotto o rallentato, anche a più riprese, le attività nei suoi stabilimenti.

Se nel 1998 il Vecchio Continente deteneva una quota del 22% nella produzione di chip, oggi ne detiene meno del 10%. Produzione che ruota intorno a tre macro-step: design, fabbricazione e assemblaggio. I modelli di business nel mondo dei chip sono sostanzialmente due. Uno è quello adottato dalla coreana Samsung e dall’americana Intel, capaci di provvedere a tutte le fasi della produzione, dalla progettazione (design) alla fabbricazione materiale del chip (Idm, Integrated design manufacturers). L’altro è quello adottato dalla taiwanese Tsmc, che si limita a fabbricare chip in conto terzi su commissione di altre aziende tecnologiche (dette fabless, senza fabbricazione) come Apple, Tesla, Alibaba, che li progettano secondo le loro esigenze. Queste prime distinzioni consentono di capire dove l’Europa si colloca all’interno della filiera produttiva dei semiconduttori, come ha spiegato un recente paper del think tank Brugel. Nel design dominano le grandi aziende statunitensi come Qualcomm, Broadcomm, Nvidia e Amd che insieme raggiungono il 65% del mercato globale. Le aziende taiwanesi come MediaTek, Novatek e Realtek, si sono ritagliate un 17% del mercato, quelle cinesi il 15% ma sono in espansione, sotto il 10% quelle europee. Nell’ambito della fabbricazione attraverso le foundries, le fonderie, le società del Vecchio Continente fanno pure peggio: qui il 60% del mercato è dominato da Taiwan, grazie soprattutto a Tsmc, gli Usa detengono un 8%, la Corea del Sud circa il 20%, quelle cinesi il 6%. A Tapei fa capo inoltre la metà del mercato dell’assemblaggio.

Ad oggi solo due aziende al mondo sono in grado di produrre chip all’avanguardia da 5 nanometri o inferiori (obiettivo dell’European Chips Act è produrre chip da due nanometri), Tsmc e Samsung, e solo tre producono chip inferiori ai 10 nanometri, Tsmc, Samsung e Intel. Tuttavia la società coreana e quella americana, ricorda il Bruegel, sviluppano chip integrati, motivo per cui gran parte della loro produzione viene ‘tagliata’ sulle esigenze dei loro prodotti di consumo. Per questo, negli ultimi mesi sono aumentate le pressioni commerciali soprattutto su Tsmc e le tensioni politiche su Taiwan. Bruxelles oggi punta a recuperare quel gap che ha accumulato in più di vent’anni di sottovalutazione della filiera dei semiconduttori, ma l’impresa è votata al fallimento. Oggi il settore si rivela altamente specializzato, con catene di fornitura molto frammentate, e soprattutto capital-intensive, quindi dipendente da una dose massiccia di investimenti, in gran parte pubblici. In tal caso, nel settore dei semiconduttori, andrebbero ampiamente riviste le norme in materia di aiuti di Stato. Ragione per cui la Commissaria Vestager ha messo in guardia sulla “illusione dell’autosufficienza”.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.