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La Cina torna vicina?

Anche stavolta si è ripetuta l’ennesima conferma di quella che io chiamerei “la legge del Faro”, che lega le borse europee a Wall Street. Questa legge esprime una forte correlazione tra l’andamento delle borse occidentali e quello degli indici americani, ed ha come corollario il fatto che quando manca Wall Street in Europa gli indici rimangono come paralizzati ad attendere che il faro si riaccenda per indicare la strada. Le poche volte in cui prendono qualche iniziativa, solitamente il mattino successivo, prima che Wall Street riapra, tornano sui loro passi, nei pressi del punto in cui Wall Street li aveva lasciati.

Ebbene ieri i mercati azionari europei si sono trascinati stancamente intorno alla parità per tutta la giornata, in attesa che in USA terminasse la festa del tacchino. Non si è visto nulla di significativo, e penso che anche oggi ci sia poco spazio per le emozioni, dato che le borse americane apriranno solo per mezza giornata e saranno abbastanza deserte, dato che tutti oggi si daranno da fare in giro per centri commerciali (sempre meno) o sui vari siti internet di e-commerce (sempre di più) a caccia di sconti per il Black Friday.

Una nota curiosa, per coloro che eventualmente pensano di speculare sul Black Friday, che è diventato una mania anche in Europa e persino in Italia, come possiamo constatare dalla pubblicità che ci arriva nella cassetta della posta tradizionale e di quella elettronica.

Ieri i principali titoli delle catene di vendita, sia in Italia che un po’ in tutta Europa, sono stati colpiti più dalle vendite che dagli acquisti. Segno che gli investitori hanno qualche dubbio sui risultati di vendita, che si conosceranno solo tra qualche giorno, e preferiscono più realizzare che incrementare le posizioni.

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In assenza di emozioni occidentali ieri la scena è stata rubata dalla Cina, di cui non ci occupiamo da un po’ di tempo, se non per brevi osservazioni di contorno.

Ieri gli indici cinesi hanno subito un deciso calo, e il CSI300, l’indice delle blue chips di Shanghai e Shenzhen ha perso quasi il -3%, come non si vedeva dal gennaio 2016, quando la Cina accusò un crollo che fece tremare le borse di tutto il mondo. Per una economia rigidamente controllata ed una borsa pesantemente pilotata dal governo, non è un evento molto frequente.

Avevo ricordato in settembre che in Cina nulla di significativo sarebbe successo prima del Congresso del Partito Comunista, che doveva rinnovare il mandato al Presidente Xi, incoronandolo come una specie di imperatore; approvare l’ambizioso piano economico quinquennale che dovrebbe condurre al sorpasso economico nei confronti degli USA; imprimere nella Costituzione cinese il pensiero di Xi, come fece con Mao. Tutte cose puntualmente avvenute mentre i mercati cinesi salivano placidamente.

Ma il Congresso si è concluso da circa un mese ed ora bisogna fare i conti con la realtà, che è assai più problematica di quel che lasciasse intravedere la splendente vernice propagandistica, che il regime ha adottato fino al Congresso. In particolare la Cina comincia ad accusare pressioni inflazionistiche non indifferenti, che minano la sostenibilità di un debito che negli anni si è mostruosamente ingigantito. Non tanto il debito pubblico, che comunque è passato dal 27% del PIL nel 2008 all’attuale 47%, aumentando di due terzi in nove anni, ma soprattutto quello privato, che è stimato in circa il 50% del PIL per le famiglie e in almeno il 165% del PIL per le imprese. A questi dati occorre poi aggiungere lo shadow banking, cioè un sistema di finanziamenti parallelo che sfugge alle statistiche e che fa stimare all’Institute for International Finance la mostruosa percentuale del 305% del PIL per il debito totale (pubblico e privato) della Cina.

Un macigno che diventa sempre più pesante, dato che negli ultimi tempi le pressioni inflazionistiche hanno spinto il rendimento dei bond statali a superare il 4% (era il 2,6% nell’ottobre del 2016 e 3,6% un mese fa) ed anche lo spread dei corporate bond cinesi a maggior rating con durata 5 anni si è impennato di 33 punti base da inizio mese ed il loro rendimento è al 5,3%, massimo degli ultimi 3 anni. Con un ammontare di bond in scadenza tra il 2018 e 2019 che ammonta a circa 1.000 miliardi di dollari, abbiamo una chiara indicazione della mole dei problemi che potrebbero emergere nei prossimi mesi. Intanto registriamo che un paio di società cinesi fortemente indebitate del settore dell’estrazione del carbone martedì hanno dichiarato default. E non sono le prime nelle ultime settimane.

Non sto dicendo che stia scoppiando la bolla del credito in Cina. Probabilmente si tratta soltanto di prese di beneficio, anche se consistenti. E forse questo calo è non solo tollerato, ma anche ben visto dal Governo, che sta mandando, dopo il Congresso, parecchi inviti alla moderazione speculativa ed alla riduzione della leva. Ultimamente ha anche irrigidito un po’ le regole sul sistema bancario per frenare lo sviluppo dello shadow banking, e forse questo provvedimento rappresenta un contributo al rialzo dei rendimenti.

Però non dimentichiamo mai che ogni scoppio di bolla all’inizio viene confuso sempre con semplici prese di beneficio.

Basta con le ansie. Buona festa del consumismo.

Autore: Pierluigi Gerbino Per ulteriori notizie, analisi, interviste, visita il sito di Trend Online