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Conflitto, crisi, incertezza: quando la teoria egemone non basta

Tornare ai classici del pensiero economico per uscire dalla crisi. Intervista a Giorgio Lunghini

Non è ammessa ignoranza al tempo della crisi. Nemmeno quella economica, per quanto sia complesso districarsi tra teorie che spesso gli stessi economisti volutamente ignorano, a vantaggio di quella sola legge economica dominante in grado di guardare alla realtà economica e sociale: la teoria neoclassica. Eppure, come spiega Giorgio Lunghini nel suo saggio per Bollati Boringhieri, Conflitto Crisi Incertezza. La teoria economica dominante e le teorie alternative (pp. 132, 14 euro, Bollati Boringhieri 2012), la teoria neoclassica è solo uno tra i molti modi.

Il suo libro è un invito al pubblico ad avvicinare la lettura dei classici del pensiero economico, che spiegano in anticipo sui tempi, e in maniera lungimirante, gli eventi che viviamo e che raramente siamo in grado di leggere criticamente. Spiega il  professore, ordinario di Economia Politica all’Università di Pavia e socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei, a Yahoo! Finanza che “la teoria neoclassica crede che i mercati siano capaci di autoregolarsi e che la migliore politica economica sia il laissez faire, il non far niente. Si lasciassero liberi i mercati di sviluppare le loro energie vivremmo in un mondo in cui ci sarebbero la massima produzione, la piena occupazione e un’equa distribuzione del redditi. Non ci sarebbero conflitti, crisi, incertezza. In realtà esistono molte altre teorie. In questo libro illustro prima la teoria egemone e poi tre grandi autori, che si occupano dell’altra faccia della teoria neoclassica".

"Il primo - dice Lunghini - è Ricardo. Se i salari sono bassi, i profitti sono alti, lo capisce anche un bambino ma ci si meraviglia che non lo capiscano gli economisti contemporanei. Il secondo è Marx al quale si deve l’unica e più interessante e potente teoria delle crisi. Aveva capito tutto 150 anni prima, in particolare l’intreccio tra aspetti reali e aspetti monetari e finanziari. Il terzo autore è Keynes: molto nominato, poco letto. Stimava il capitalismo ma riteneva che avesse grandissimi difetti: una iniqua e arbitraria distribuzione del reddito e della ricchezza e la disoccupazione, esattamente due delle caratteristiche di questa fase del capitalismo e anche due delle cause principali della crisi. Provò a suggerire le ricette con cui eliminare i difetti: tre ingredienti che, se fossero stati applicati prima, questa crisi non ci sarebbe stata, e, se fossero applicati oggi, da questa crisi si potrebbe uscire”

Quali sono i tre ingredienti anti-crisi suggeriti da Keynes e riproponibili oggi?

"Il primo ingrediente è destinato a rimediare all’iniqua e arbitraria distribuzione del reddito: imposizione fiscale fortemente progressiva come predica la Costituzione, non con l’intento di punire i ricchi, ma semplicemente perché trasferendo reddito dai più ricchi ai più poveri i consumi aumenterebbero, perché i poveri in proporzione consumano più dei ricchi; quindi la domanda sarebbe maggiore, il reddito e la produzione sarebbero maggiori, l’occupazione crescerebbe. In secondo luogo, fortissime imposte di successione. Questa è una ricetta liberale, predicata dai grandi fondatori del pensiero liberale: almeno i bambini nella culla devono essere uguali. E poi lotta durissima, sino all’estinzione del redditiero, alla speculazione finanziaria che garantisce un reddito a delle persone che nulla fanno: i finanzieri non fanno un grande lavoro, l’imprenditore sì. E ciò si potrebbe ottenere con appropriate politiche monetarie e finanziarie. Terzo ingrediente: è bene che il settore privato faccia tutto ciò che vuole nei limiti della legge, stimolandolo indirettamente a fare di più. Ma se questi metodi indiretti non fossero sufficienti, e però c’è ancora disoccupazione, allora lo Stato deve intervenire sennò ci si attesta su una posizione intermedia né tremenda ma nemmeno ottimale come si potrebbe".

Scrive che le premesse politiche sono quelle che mancano per risolvere il grande problema attuale: troppe merci e poco lavoro. Ma esistono le premesse economiche e tecnologiche. Ma perché sono assenti quelle politiche? Una forma di consapevole miopia?
"Non c’è dubbio ed è un fatto notato da molti, il primo a notarlo è stato il genero di Marx, Paul Lafargue, il secondo è lo stesso Keynes: avevano notato che il progresso tecnico e le conoscenze tecniche scientifiche erano tali che ormai si poteva provvedere alla produzione di tutto quanto occorre a una vita decorosa e piacevole con una giornata lavorativa di tre ore. Il punto è chiaro: le conoscenze tecniche e scientifiche sono tali che basterebbero anche meno ore di lavoro, purché distribuite su tutti, per produrre tutto ciò che occorre".

Perché non avviene?
"La disoccupazione è terribile, ma è nella natura del capitalismo il non desiderare la piena occupazione. Perché se c’è disoccupazione c’è disciplina in fabbrica, è un modo per mantenere i lavoratori sotto ricatto. E in Italia, ci sono stati esempi di studi di comportamenti di sedicenti imprenditori in questo senso. Questa credo sia la risposta principale, poi ce ne sono molte altre. Non c’è la volontà politica, forse per miopia, forse anche per interesse".



L’assenza di teorie della crisi è una giustificazione per gli economisti che non sono in grado di prevedere e leggere in anticipo le crisi? O è un semplice problema di metodo laddove si separano, in ambito accademico, le competenze economiche da quelle politiche?

"La maggior parte degli insegnamenti delle teorie economiche trascurano completamente gli autori che ho nominato perché pensano che semmai dovrebbero essere studiati nei corsi di storia del pensiero. Questo è un grosso equivoco. In fisica è ragionevole studiare un manuale che spieghi il modello standard. Quando uno sa quello, sa tutto. Cosi è in larga misura in tutte le altre scienze serie. Così non è in economia. Questo ci può piacere oppure no, ma certe cose le hanno detto solo alcuni. Prendiamo Marx. Se uno lo nomina pensa al marxismo, all’ideologia, al comunismo. Questa è pura ignoranza. Se uno legge Marx senza sapere che quelle pagine sono scritte da lui, ci trova elogi del capitalismo ma anche la sistemazione più convincente e aggiornata della crisi, in cui non c’è nulla di ideologico, ma pura e semplice analisi scientifica e critica. La crisi non piove dal cielo, né si genera per choc esterni. A generare la crisi è il malfunzionamento insito nel capitalismo stesso. In Marx questo si trova. Purtroppo ci sono professori che insegnano una sola teoria che deve per forza essere formulata in forma matematica. La matematica è un ottimo strumento, ma ci sono molti concetti economici che si possono rappresentare e descrivere nel linguaggio ordinario. Che in molti casi è più potente".

Come si concilia il concetto di crisi di sovrapproduzione in un mondo dove larghe fasce di popolazione restano inappagate nei bisogni?
"E' un’espressione quella di sovrapproduzione, usata dallo stesso Marx, ambigua. Bisogna completare il concetto dicendo: è una crisi di sovrapproduzione rispetto ai redditi disponibili, non rispetto ai bisogni. I bisogni esistenti restano insoddisfatti anche se si produce molto. Ma le crisi di sovrapproduzione nascono dal fatto che la distribuzione del reddito è tale che a fronte di una data offerta di merce non c’è una domanda effettiva, una capacità di spesa capace di assorbire per intero la produzione che è stata realizzata. Nel sistema capitalistico, aspetti finanziari e reali sono molto collegati tra loro, per una ragione molto semplice: il sistema capitalistico si regge sulla moneta. Questo fa sì che il ruolo della moneta istituisce un legame fisiologico tra aspetti finanziari e reali. Senza finanza il capitalismo è impensabile. Ma qui appunto si vede come le varie forme della crisi, crisi di sovrapproduzione, di tesaurizzazione, sono strettamente intrecciate tra di loro e vanno a comporsi in quella legge di caduta tendenziale del fattore profitto".