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Cosa capisci dell'Italia quando vai a vivere a Londra

Il nostro Paese e il Regno Unito a confronto nel libro di Caterina Soffici “Italia yes Italia no”

Avvertenze: se pensate di leggere Italia yes, Italia no – Che cosa capisci del nostro Paese quando vai a vivere a Londra (Feltrinelli) per convincervi che in Italia si stia meglio o, viceversa, che è arrivato il momento di espatriare perché qualsiasi posto è migliore del nostro Paese, sappiate che non è tra le 142 pagine del libro di Caterina Soffici, giornalista freelance trasferitasi nella capitale del Regno Unito 3 anni fa, che troverete le risposte.

Ed è forse per questo, ma anche per tanti altri motivi, che queste pagine regalano una visione molto realistica di come nessun posto sia davvero perfetto. Ma di come, allo stesso tempo, ci siano alcune cose che altrove sono più perfette di altre. D’altra parte, l’autrice l’afferma fin dall’inizio di questa nostra chiacchierata: “Nessun intento sociologico dietro a questo libro, quando vedo delle cose le scrivo, è la mia maniera di capirle, esorcizzarle, focalizzarle. Londra è stata raccontata in migliaia di modi, chiunque ci viene pensa di conoscerla, ma è una città che cambia in continuazione”.

Partiamo da uno dei dati che viene fuori dal libro e che fa certamente pensare. In Inghilterra si trovano mezzo milione di Italiani. Come si spiega questo fenomeno e come lo percepiscono gli inglesi?
“È una cosa dell’ultimo anno e mezzo, la crescita è continua, impressionante, tant’è che il Consolato ha aperto uno sportello per i nuovi arrivati dal Belpaese. Si parla di 7-8 mila al mese, ma non è come si crede, una fuga di cervelli o che riguarda lavori manuali, ma una vera e propria fuga e basta. Mi spiego: non si tratta più solo dello studente o del neolaureato che vengono a fare esperienza o studiare inglese, ma ci sono famiglie intere (come è successo a noi d’altronde), che si spostano, professionisti con anni di esperienza che non si vedono riconosciuti in Italia. Ci sono genitori che decidono di fare studiare qui i loro figli.  Queste persone stanno delocalizzando il loro futuro. Gli inglesi questa fuga non la vedono più di tanto: d’altra parte Londra con 8 milioni di abitanti e 12 di pendolari è abituata al melting pot, inoltre con i turisti che vengono di continuo, è difficile intuire chi è stanziale chi no”.

E riprendendo il sottotitolo del suo libro: cosa si capisce del proprio Paese quando si va a vivere in Inghilterra?
“Capisci che l’Inghilterra non è meglio del tuo Paese, come uno pensa, non è la patria dell’ordine e delle cose che funzionano, ma è quel posto dove la comunità diventa più importante del singolo, dove il rispetto delle regole passa da questo. Un posto normale dove si vive peggio per stare meglio. Dell’Italia capisci che siamo degli idioti a trattare il nostro Paese come un terreno da riempire di rifiuti e soprattutto un’altra cosa: che tutto il male che racconto nel libro che ha spinto noi a venire via quando sei dentro lo percepisci come ineluttabile, ti indigni ma tanto pensi che è così, fuori lo vedi nitidamente per quello che è. In Italia per trovare lavoro pensi che devi essere amico di qualcuno, avere un rapporto con questa persona,  invece bastano 6 mesi qui che il tuo cervello cambia, che entri nell’ottica che se hai un’idea la puoi realizzare”.

Ci fa qualche esempio concreto?
“C’è una ragazza di 35 anni, venuta qui 6 anni fa con l’intento di fare qualsiasi cosa pur di non arenarsi in Italia dove era l’aiutante di un parrucchiere che non le faceva fare altro e che invece poco tempo dopo ha aperto il suo primo negozio di parrucchiere con una socia e, dopo 6 anni, sta per aprire il terzo. Come ha fatto? È sveglia con capacità imprenditoriale e qui puoi essere di qualunque nazionalità, avere qualsiasi stranezza, ma se sei convincente un prestito lo avrai. E ancora: la Guardia di Finanza non esiste, esiste l’Agenzia delle entrate con un suo sito perfettamente funzionante dove poi vedere qual è la tua situazione fiscale. Un mio conoscente aveva pagato più tasse del previsto, gli hanno riaccreditato i soldi sul conto corrente. È diverso rispetto all’Italia: qui si suppone sempre che tu sia in buona fede e l’errore formale è tollerato. Una mia amica italiana commercialista, tenendo la contabilità per un’azienda, ha messo in detrazione 50mila sterline. Viene contatta dall’Agenzia delle Entrate che chiede il perché di quella detrazione, le viene spiegato che non si può fare e quando gli ufficiali capiscono che la mia amica è in buona fede, le fanno firmare una lettera in cui lei dichiara di non avere compiuto l’errore volontariamente e che non lo ripeterà più. La 'sorvegliano' per 6 mesi telefonandole per sapere come va e se tutto in regola e una volta passati quei 6 meso, vedendo appunto il suo comportamento, annullano la sanzione che avrebbe dovuto pagare. Anche perché qui non si scherza: la frode è punita con 7 anni di carcere e foto di chi evade".

Quanto influisce l’organizzazione scolastica che descrive nel capitolo “Finding the school” su una società simile?
“Secondo me c’entra poco, piuttosto è l’etica protestante per cui le regole vanno rispettate, punto e basta. E chi ha sbagliato paga. Nel libro parlo spesso di ministri che per un errore si dimettono, ancor prima della condanna definitiva perché per loro un sospetto rappresenta una macchia per l’istituzione che rappresentano. La scuola ha un ruolo importante perché tramite questa vengono modellati i futuri cittadini. Qui non si copia, fa parte dell’insegnamento, copiare vuol dire fregare se stessi oltre che la maestra”.

Infine, cosa si salva dell’Italia e cosa andrebbe rivisto? Per esempio cosa salverebbe del mondo del lavoro?
“La salverei tutta, perché non ci si dimette dall’essere italiani, a parte corruzione, nepotismo, burocrazia,  disfattismo, cinismo ecc... Del mondo del lavoro salvo poco: in Italia sono migliori i rapporti umani, l’affiatamento tra colleghi, il caffè e tutto il resto. Condanno invece il maschilismo degli ambienti di lavoro e la discriminazione che passa sempre dagli uffici. Anche nel Regno Unito, come dico nel libro, c’è discriminazione, ma non è tollerata, se la subisci hai dei canali a cui ti puoi rivolgere per denunciare. A Londra fai carriera per le tue idee e la capacità, se sei giovane, nessuno pensa che tu possa prendere il posto. Si dice ‘There is always room at the top’, questo perché conta quello che si apporta all’azienda.  Dell’Italia non salvo l’immobilità: qui se perdi il lavoro, lo ritrovi, certo la crisi c’è stata e anche se non c’è libertà di licenziare chiunque e comunque, la mentalità è diversa. La gente è pronta a rinnovarsi e a mettersi in gioco. In Italia il posto fisso è a vita, qui di fronte a un concetto del genere vieni guardato male e per posto fisso si intende il luogo in cui vai a lavorare, non posto fisso è il luogo in cui vai a lavorare, non dove lavorerei per tutta la vita. Questo crea libertà mentale, voglia di innovare. Inoltre anche i manager sono sottoposti a lunghi processi di selezione. Conosco un manager della city che prima di ottenere il suo lavoro ha fatto 20 colloqui con 20 persone diverse. Qui non entri per cooptazione ma ognuno ha la responsabilità in quella scelta. Riducendo, si può dire che ‘il tutto vale più del singolo’".