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Giuseppe Provenzano: "Sulle crisi industriali Giorgetti ci metta la faccia"

Giuseppe Provenzano (Photo: Aleandro BiagiantiAleandro Biagianti / AGF)
Giuseppe Provenzano (Photo: Aleandro BiagiantiAleandro Biagianti / AGF)

Vicesegretario Giuseppe Provenzano, mentre io e lei siamo al telefono ci sono i 422 lavoratori della Gkn appesi a una videoconferenza con l’azienda che è già scritta. Poche ore fa è toccato ai 152 dipendenti della Gianetti Ruote sentirsi ripetere che non torneranno a lavorare. È stato un errore sbloccare i licenziamenti?

Rivendico la nostra richiesta di maggiore gradualità nell’uscita dal blocco, che comunque non poteva durare in eterno. Ma bisogna dire la verità: queste vicende non sono legate allo sblocco, la cessazione di attività poteva verificarsi anche prima. Ciò non le rende meno gravi o inaccettabili, anche perché si tratta di palesi violazioni dell’accordo sottoscritto col Governo dalle associazioni datoriali e dai sindacati, che prevedeva il ricorso ad ammortizzatori gratuiti per non scaricare sui lavoratori le difficoltà e le contraddizioni che pure ci sono nella ripresa.

L’accordo firmato a palazzo Chigi però non è stato neppure preso in considerazione.

Quell’accordo non va solo monitorato, va reso più cogente richiamando tutti alle loro responsabilità. Ma qui il vero tema è come si affrontano le crisi industriali, come ci difendiamo dalle delocalizzazioni, come promuoviamo una politica industriale per la ripartenza. Perché alla Gkn, alla Gianetti, alla Whirlpool e in altre realtà non c’è solo in gioco il futuro dei lavoratori e delle loro famiglie, ci sono i destini industriali di intere comunità, di pezzi di Paese.

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Prima partiamo dai comportamenti. Le leggo il messaggio che hanno ricevuto i lavoratori di Logista qualche giorno fa: “Da lunedì 2 agosto lei sarà dispensato dall’attività lavorativa. Cordiali saluti”. Siamo all’anno zero delle relazioni industriali. Non pensa che la sinistra abbia da rimproverarsi qualcosa se siamo arrivati al punto che i lavoratori vengono licenziati con un messaggio su Whatsapp? Non si può mica ridurre tutto alla narrazione della multinazionale cattiva e spietata che delocalizza e licenzia.

Non si tratta di pretendere il bon ton alle multinazionali, ma di riaffermare che nella Repubblica fondata sul lavoro questi comportamenti sono inaccettabili. Abbiamo procedure a garanzia di relazioni industriali dignitose: qui sono state calpestate. E le dico con franchezza che non bisogna avere paura di un discorso pubblico sull’etica del capitalismo.

Facciamolo.

Molti studi dimostrano che coniugare la capacità concorrenziale con la sostenibilità sociale dà una chance in più. Nel mondo si discute di Esg capitalism, non vale solo la trimestrale di cassa ma anche la reputazione. Invece qui, mentre partivano 422 lettere di licenziamento, il titolo della Gkn guadagnava il 5% in Borsa. Si moltiplicano i casi di multinazionali e fondi speculativi che comprano e vendono stabilimenti senza una ragione industriale. Ma l’impresa è anche il lavoro, la comunità che la circonda.

E siamo arrivati al ruolo che ci si aspetta dalla sinistra, cioè la tutela dei lavoratori.

Il Pd, dopo gli anni renziani in cui entrava in fabbrica solo con i top manager, è andato dentro i cancelli con gli operai. Alla Gkn il sindaco ha schierato l’istituzione, ieri c’è stato il ministro Orlando, un segnale importante. Quando sono andato io un lavoratore mi ha detto: “Se è successo, vuol dire che poteva succedere”. Ma questo per la sinistra significa fare i conti con le mancanze non solo degli ultimi anni, ma degli ultimi decenni. E reagire non con l’indignazione morale, ma con le politiche industriali e con le norme.

Il conto per il Governo è arrivato a due tavoli di crisi in un giorno, però non si intravedono soluzioni. La partita la guida il ministero dello Sviluppo economico: Giorgetti è il titolare, i 5 stelle hanno la delega alle crisi con la viceministra Todde. Lei, da vicesegretario del Pd, come giudica la gestione della politica industriale del Paese?

Il ministro Giorgetti dovrebbe metterci la faccia, a questo tavolo come a quello di altre crisi, e non delegare tutto al pur generoso e serio impegno della sottosegretaria Todde. Se ci lamentiamo che al posto del decisore industriale un’azienda manda gli avvocati ai tavoli o manager che sono sostanzialmente impiegati con uno stipendio più alto ma senza alcun reale potere di scelta, anche noi dobbiamo schierare come controparte il decisore politico alla massima espressione.

Cosa cambia?

Significa dare un segnale chiaro alle multinazionali: l’Italia c’è e ci tiene a farsi rispettare. Gli altri governi fanno così, ma le dico anche di più. Se al Mise pensano di affrontare le crisi azienda per azienda, i tavoli finiranno per moltiplicarsi.

Quindi come se ne esce?

Noi chiediamo che si facciano tavoli di settore, in cui le singole crisi non siano solo materia di ammortizzatori sociali e si prevenga l’esplosione a freddo di altri casi. Per ogni filiera strategica, si chiamino i capifiliera e le altre imprese, i sindacati e i territori, e si mettano sul piatto le strategie e gli strumenti per consolidare e rilanciare la seconda manifattura d’Europa. I presupposti ci sono tutti, a partire dalle risorse del Pnrr, ma serve una nuova politica industriale.

Veniamo alle proposte. Il suo collega di partito e ministro del Lavoro Andrea Orlando chiede multe più severe per le multinazionali che licenziano e vanno all’estero. Tre anni fa la stessa idea l’hanno avuta i 5 stelle con la norma anti-delocalizzazione inserita nel decreto Dignità. È stata un flop. Lei crede che abbia senso insistere ancora su questa strada?

Non è affatto la stessa strada, quelle norme con ogni evidenza non hanno funzionato. Ma di fronte a realtà industriali senza una proprietà e un management chiaramente identificabili, che appartengono a fondi magari con sede legale in qualche paradiso fiscale, che si fa, si alza bandiera bianca? La questione è semplice: per le multinazionali vale o no l’articolo 41 della Costituzione?

Le giro la domanda.

In Francia, ma anche in Germania, ci sono legislazioni che garantiscono la tenuta del legame dell’industria con l’economia e la società del territorio in cui opera. Noi pensiamo che vadano adottate anche qui, puntando prima sulla responsabilizzazione e dopo sull’eventuale sanzione. Poi c’è un tema che riguarda l’Europa perché spesso il dumping che favorisce le delocalizzazioni avviene nel continente.

È il mercato bellezza, direbbe qualcuno. Come si governa questa dinamica?

Bisogna insistere per l’armonizzazione dei sistemi fiscali e degli standard sociali e salariali. Il Parlamento europeo ha votato più di una proposta sulla Corporate Social Responsability. Si parte da lì. Anche la proposta di Biden per una tassazione minima delle grandi corporation, che passava per velleitaria fino a qualche anno fa e che il governo Draghi ha fatto benissimo a sostenere, non risponde solo a un principio di equità fiscale, ma di riequilibrio del “potere dei giganti”, come li chiamava Colin Crouch.

La Lega è contraria alla strategia delle sanzioni. Il rischio è che gli imprenditori neppure arrivino in Italia. Ma veniamo al punto: da settimane nella maggioranza si parla di un intervento anche solo per dare un segnale alle multinazionali che stanno licenziando. Voi cosa proponete?

Gli investimenti privati si attirano puntando sulla ricerca e sull’innovazione, migliorando il contesto attraverso i servizi di qualità, facendo le riforme. E tutto oggi è alla nostra portata con il Next Generation Eu. Il fatto è che poi questi investimenti dobbiamo farli restare. La Lega dovrebbe rispondere dei suoi alleati in Europa, a partire da Orban, che fanno concorrenza sleale al nostro Paese e alimentano questi processi. Altro che difesa dell’interesse nazionale.

Sta dicendo che la Lega non ha a cuore la politica industriale italiana?

Spero che c’è l’abbia. Ma purtroppo, come nella vicenda dei licenziamenti, malgrado decenni di sociologie da strapazzo secondo cui la Lega era il partito degli operai, su queste partite Salvini non c’è mai. È al Papeete a minacciare il Governo sui migranti. Noi invece sul tema della produzione e del lavoro ci giochiamo l’identità. Non proponiamo “durezza”, ma regole, come negli altri Paesi.

Quali regole?

Garanzie sui tempi di comunicazione delle decisioni industriali che mettano al riparo da quelle assunte solo per ragioni speculative, una forte responsabilizzazione dell’azienda in fuga nei processi di reindustrializzazione e quando si viene meno a questi doveri scattano le multe. In Francia sono condivise da tutte le forze politiche, si capisce che in gioco c’è la difesa della capacità industriale. Perché non può accadere anche in Italia?

Su questo giornale l’economista Andrea Garnero ha spiegato bene come l’estensione della cassa integrazione e un po’ di soldi pubblici non bastano a tirare su una politica industriale di lungo periodo. Un’immagine emblematica: i lavoratori di Termini Imerese sono in cassa integrazione da dieci anni, hanno un posto di lavoro sulla carta ma non lavorano. Qual è l’exit strategy?

Gli ammortizzatori arrivano a valle, ma il problema è a monte ed è appunto la politica industriale. Bene il ministero del Lavoro che sta lavorando contestualmente sia alla riforma degli ammortizzatori che quella delle politiche attive legate alla dimensione territoriale, sul modello dei patti per il lavoro dell’Emilia Romagna e dell’esperienza di Milano. Ora il tema è come legare tutto questo alla nuova stagione di investimenti che si apre nel Paese.

Appunto, come?

Siamo la seconda manifattura d’Europa, la settima potenza industriale del mondo, per consolidare questo primato, e dunque creare lavoro buono, dobbiamo accompagnare la nostra industria non a “difendersi” dalle transizioni, ma a produrre l’innovazione e la tecnologia necessarie, altrimenti il rischio è limitarsi in gran parte a importarle. Abbiamo fatto una discussione al Pd con esperti, imprese e sindacati su come massimizzare l’impatto del Next Generation Ue sulla produzione e sul lavoro di qualità nel nostro Paese. Enrico Letta ha chiesto al Governo di promuovere un patto sulla politica industriale per potenziare gli effetti del Pnrr, richiamando imprese e sindacati. A questo tavolo ci devono essere anche i territori. Può essere una grande opportunità, ma io penso che sia anche una necessità e in vista dell’autunno sarà più chiaro a tutti.

La transizione ecologica che andrà costruita con il Recovery non sarà a costo zero. I ministri Cingolani e Giorgetti hanno lanciato un’operazione verità, ponendo la questione di procedere per gradi e attutire così i contraccolpi della transizione. Perché il Pd è rimasto silente? Così rischia di perdere per strada un pezzo importante del proprio mondo di riferimento.

Guardi, basta con questa rappresentazione. Non è che se non ci mettiamo a urlare o a seminare il panico siamo silenti. Siamo stati noi, a livello europeo, ad aver imposto che la transizione ecologica fosse “giusta” e cioè che pagarne il costo non fossero i lavoratori e i ceti medio-bassi. E sui temi del lavoro ci siamo noi, spesso solo noi. Francamente non mi sembra tempo di grandi “discorsi di verità”, ma di fare i bandi per spendere gli oltre 100 miliardi che ad esempio ci sono tra Mise e Mite, perché va bene il lavoro di Orlando sugli ammortizzatori e la formazione per accompagnare la transizione, ma con queste risorse abbiamo il dovere di crearlo il lavoro.

Entriamo dentro questa transizione. Quella dell’automotive verso l’elettrico rischia di generare sovraccapacità produttiva e quindi esuberi. Come si gestisce questo passaggio?

L’automotive cambierà, in maniera inesorabile, ma questo non significa necessariamente che a subirne i contraccolpi dovranno essere i lavoratori. Stellantis sta indicando un buon progetto di rilancio per Termoli, dove dai motori diesel si passerà alla produzione di batterie al litio. Ma dobbiamo sostenere l’intera filiera della componentistica nella transizione, in cui c’è un pezzo fondamentale dell’industria italiana. E c’è Gkn, ad esempio. Torna il discorso di prima, che vale anche per la siderurgia. Ci sono Taranto, Piombino, Genova, ma si stanno giocando partite importanti a Trieste e con la vendita delle acciaierie di Terni. Bisogna esplicitare il disegno strategico di come stiamo nella transizione, non preoccuparci di frenarla.

A proposito di licenziamenti: l’operazione UniCredit-Mps rischia di dare vita a cinquemila esuberi. Siete contrari al cosiddetto spezzatino, chiedete di tutelare il lavoro e il territorio, ma se passa il treno di UniCredit per Siena sono problemi. Quali sono i paletti che ponete al Tesoro per il vostro via libera?

La premessa è una discussione pubblica, aperta e trasparente sulla scelta, coinvolgendo anche le parti sociali e il territorio. Noi vi partecipiamo attivamente e, come ha ricordato anche Letta, il primo dei nostri paletti è la tutela dell’occupazione. Poi, appunto, siamo contrari a ogni ipotesi di spezzatino, chiediamo la tutela del marchio e del radicamento territoriale della banca, e l’accompagnamento dello Stato in questa fase di riorganizzazione, mantenendo una partecipazione a garanzia delle istanze dei lavoratori e del territorio.

Se UniCredit dovesse tirare dritto sulle proprie condizioni, a che punto arriverete per opporvi all’acquisizione di Mps? Il Tesoro è intenzionato a chiudere la partita anche perché l’Europa non ci permette di allungare ancora la stagione della banca pubblica.

Il Governo, con il ministro Franco, deve esplicitare le ragioni per cui ritiene questa acquisizione come lo scenario preferibile. Perché la vicenda Mps è lunga, complessa, piena di errori - certo, anche a sinistra - ma rimane una questione cruciale per il rafforzamento e il consolidamento dell’assetto del sistema bancario italiano. In questo assetto forse oggi va ricordata l’importanza del legame con il territorio, che dev’essere virtuoso, a differenza di troppe vicende del passato, e che resta cruciale. Il nostro Paese ha bisogno, accanto alle grandi banche sistemiche, di una rete efficiente e vitale di istituti di credito territoriali, vicini alle imprese, ai cittadini e al territorio. La Germania non si sognerebbe di indebolire la sua.

Quello tra Mps e la sinistra è un rapporto così longevo e complesso che sviscerarlo in una domanda sarebbe banale, ma le elezioni suppletive a Siena, con Letta candidato, lo ripropongono in maniera equivocabile. Temete un contraccolpo in termini di voti?

Letta ha parlato della necessità di un’onesta autocritica, facendosi peraltro carico di una storia su cui certo non ha alcuna responsabilità. Ma soprattutto della garanzia di una “cesura” e dell’impegno per un cambiamento radicale. Perché qui ora è in gioco il futuro di Siena, che ha una valenza nazionale. È stato il Pd senese e toscano a capirlo, chiedendo con forza a Letta di correre in quel collegio. Enrico è stato coraggioso ad accettare, si è assunto un rischio e ha fatto bene perché il capo di un grande partito deve stare in Parlamento, soprattutto in vista di passaggi decisivi. Se poi guardo alla vicenda Mps, aggiungo che è difficile pensare a una voce più autorevole della sua per difendere le prerogative del territorio.

Tre anni fa avete perso Siena dopo 70 anni di governo rosso. Li definiamo maligni quelli che pensano che il vostro interesse per Mps sia solo imposto dalla necessità di evitare un allargamento del consenso della Lega nel feudo toscano che già si fa fatica a difendere?

La Toscana è stata uno dei teatri in cui più forte è stata lo sconfinamento della destra e l’arretramento del Pd nel 2018 che ha portato alla sconfitta peggiore della nostra storia, frutto dello sradicamento sociale di quella stagione. Con fatica, alle elezioni regionali abbiamo tenuto, ma questa battaglia può diventare l’avvio di una stagione riscatto di tutto il centrosinistra toscano. Le malignità lasciano il tempo che trovano, è evidente la determinazione con cui ci stiamo occupando del futuro di Mps. Ma il futuro di Siena non può esaurirsi a questo. E Letta sta battendo il territorio, facendo una campagna sulla cultura, l’agroalimentare, e soprattutto lavorando alle grandi opportunità che, con Next Generation Eu, si aprono per quel territorio, ad esempio sul tema strategico delle scienze per la vita.

I renziani difendono Pier Carlo Padoan, ex ministro dell’Economia che salvò Mps con la nazionalizzazione, ora presidente di quella UniCredit che vuole comprarla. Nel Pd pensate che possa essere un elemento di disturbo per la corsa di Letta?

E che c’entra con Letta? Quella di Padoan è stata una scelta di natura personale, che ritengo inopportuna e discutibile. Ma anche qui non serve il giudizio, servono norme, una legge che regoli porte girevoli fra ruoli pubblici e privati e attività lobbistica. La sinistra troppo a lungo si è preoccupata del conflitto di interesse solo con riferimento a Berlusconi, dimenticando quelli endemici che ci sono nella società. Noi oggi ne siamo consapevoli e vogliamo affrontarli, questa è un’altra stagione del Partito democratico. Mentre Salvini e Meloni sono sempre gli stessi che hanno difeso l’indifendibile, al fianco di Berlusconi. La morale, per decenza, anche no.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.