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"Gli errori di Biles e Osaka: dedicare la vita completamente alla vittoria"

“Le forti pressioni psicologiche degli atleti a Tokyo si spiegano anche con l’eccessiva attenzione che tutti noi poniamo nei risultati, che comportano uno svuotamento dello sportivo e della persona. Pilato ha reagito alla sconfitta o alle difficoltà meglio di Osaka o Biles, che però erano sicuramente più sotto pressione”. Stefano Massari di mestiere fa il mental coach, in particolare nello sport. L’“allenatore della mente” è una figura professionale che in Italia si è diffusa da non molti anni e che cerca di migliorare le performance degli atleti allenandoli alla gestione della pressione, dello stress, della paura e anche della sconfitta. “Il mental coach mette al centro lo sviluppo della persona, la scoperta delle proprie qualità attraverso la propria attività” spiega Massari.

Tra i diversi atleti a livello internazionale seguiti da Massari anche il tennista Matteo Berrettini, fresco finalista nel torneo di Wimbledon. Massari, intervistato da Huffpost, commenta le dichiarazioni delle atlete che durante i Giochi di Tokyo hanno espresso le loro difficoltà nel reagire alle pressioni psicologiche. Tra di loro Simone Biles, la protagonista più attesa delle Olimpiadi, che ha dato forfait nel mezzo della gara perché sentiva alcuni “demoni nella testa”. Naomi Osaka, tennista e ultimo tedoforo dei Giochi, eliminata al terzo turno, che ha affermato di non saper reggere la pressione della sua prima Olimpiade. Benedetta Pilato, nuotatrice azzurra 16enne, che dopo l’eliminazione in batteria nei 100 rana ha scritto sui social: “Sono partita con un obiettivo e purtroppo torno a casa con un po’ di delusione. Mi serve per crescere, per maturare e per riuscire meglio la prossima volta”.

“Le reazioni delle tre atlete sono molto diverse. Quella di Pilato è sicuramente la più sana e quella più promettente per il futuro. La sconfitta non è un fallimento” commenta Massari. Di come reagire alle sconfitte, ma anche a momenti di difficoltà nella vita di uno sportivo, come possono essere gli infortuni o i rapporti complicati con gli allenatori, il mental coach parla nel suo ultimo libro: “Vinci o Impari. Come lo sport aiuta a diventare persone migliori”. Lo fa attraverso le voci di atleti di ieri e di oggi, tra cui Pietro Mennea, Flavia Pennetta, Dino Zoff e Berrettini, che raccontano le loro esperienze.

Stefano Massari (Photo: Stefano Massari)
Stefano Massari (Photo: Stefano Massari)

Tre donne diverse, tre atlete diverse Osaka, Biles e Pilato. Tutte e tre hanno però espresso alcune difficoltà nel reggere la pressione psicologica e anche i cali di prestazione. Che cosa pensa delle loro dichiarazioni?

Delle tre quella che ha affrontato meglio la tensione è Pilato, che è sicuramente dispiaciuta, però ha anche detto che questa prestazione non cancella ciò che di buono ha realizzato in passato. Soprattutto ha affermato che in qualche modo questa sconfitta la rafforzerà. Ha fatto persino riferimento alle persone che da tempo si aspettavano un suo calo e ha detto che la aiuteranno a tornare ancora più forte di prima. Mi sembra che non abbia perso fiducia in se stessa, ed è molto importante, perché le sconfitte hanno spesso un impatto su questo aspetto. Biles e Osaka invece hanno reagito in modo diverso. Ma loro sono state sicuramente più esposte di Pilato, che è un enfant prodige. Osaka sono mesi che soffre dal punto di vista psicologico, non è la prima volta che ne parla. Biles invece è l’atleta da cui tutti si aspettavano il massimo. E non ha retto.

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Perché secondo lei proprio durante i Giochi di Tokyo 2020 sono emerse così tante testimonianze di difficoltà nel reggere la pressione?

In primis perché le Olimpiadi sono in assoluto la competizione sportiva in cui c’è più tensione. Il loro potere simbolico è superiore a qualsiasi altra manifestazione sportiva. Poi sono sicuramente Olimpiadi particolari perché sono senza pubblico e questo può creare diversi problemi: ci sono atleti che traggono energia, ispirazione dal pubblico. In ultimo ovviamente il tema del covid, l’ansia del risultare positivi e la possibilità che si debba sospendere la prestazione. Questi tre elementi hanno contribuito ad aumentare la tensione. Poi c’è un altro aspetto, forse più profondo. Le difficoltà psicologiche degli atleti si spiegano anche con l’eccessiva attenzione che poniamo nei loro risultati.

Che cosa intende?

Le dichiarazioni così forti di Biles e di Osaka mi fanno venire in mente quelle di Thiem (Dominic Thiem, tennista austriaco, vincitore degli Us Open lo scorso settembre). Il tennista ultimamente non ha più gareggiato e ha fatto solo qualche sporadica apparizione. ‘Una volta raggiunti gli Us Open ho ottenuto la vittoria di uno slam, quello che volevo. E quindi la mia vita mi sembrava vuota’ ha affermato Thiem. Ecco, questo succede quando l’atleta dedica tutta la sua vita unicamente al raggiungimento di un risultato, senza curare se stesso o altri interessi. Se si pone troppa attenzione unicamente al risultato si ha come conseguenza lo svuotamento dello sportivo e della persona. L’idea che un atleta debba dedicarsi solo allo sport è sbagliata. È importante invece che coltivi anche altri interessi. Questo gli permette di avere una vita più equilibrata e per nulla meno performante rispetto ai suoi colleghi. Si preserva dalla solitudine che poi crea problematiche psicologiche.

Di pressione psicologica negli sportivi si parla però molto poco. Come mai c’è ancora l’idea dello sportivo come fosse quasi una macchina da guerra?

Non so perché si sia diffusa quest’idea. Forse è un retaggio dei regimi totalitari dell’inizio del ’900, quando l’atleta veniva considerato come un super uomo o l’uomo all’ennesima potenza. È sbagliato però vederlo in questo modo. Tale visione non contribuisce all’evoluzione dello sport né della civiltà. Io vedo lo sportivo come un uomo che è semplicemente più propenso a confrontarsi con se stesso.

Come si gestiscono e come si affrontano lo stress e la pressione in base alla sua esperienza?

Una chiave fondamentale è accettarli. Tanti atleti cercano la ricetta magica per non provare stress e paura. Mi è successo di incontrarne. Secondo me è una ricerca vana, perché questi stati d’animo fanno parte delle manifestazioni sportive. Sarebbe molto deludente per un atleta vivere le Olimpiadi senza tensione o paura. Il primo passaggio dunque è quello di accettare queste paure. Il non pensare che non si possa sostenere una gara solo per il timore di non riuscire a portarla avanti. Poi ci sono una serie di esercizi di attivazione fisica. La tensione toglie l’attenzione e la concentrazione. Nei tennisti tende a bloccare alcuni muscoli. Quando lo sportivo si sente teso comincia a ragionare meno sulla gara. Quindi si può cercare di evitare l’impatto della tensione sul corpo. Ci sono tecniche che servono per rilassare il corpo e far girare l’ossigeno. Bisogna sostituire al pensiero dei “demoni nella testa” un pensiero più utile, che di solito risulta dalla domanda: come faccio a fare la gara migliore possibile?

Il mental coach sportivo è un mestiere molto diffuso?

Negli stati uniti il mental coaching applicato allo sport esiste ormai da diversi anni. Nel nostro Paese invece no, sono pochi anni che si è diffuso. Quando ho cominciato a farlo con una certa continuità, una decina di anni fa, c’erano pochi esempi di mental coach che lavoravano nello sport. Poi i principi che animano il mental coach sportivo sono gli stessi che animano il lavoro del mental coach nella vita o in azienda: mettere al centro lo sviluppo della persona, la scoperta delle proprie qualità attraverso la propria attività. Nello sport questo risulta più semplice, perché emergono anche visivamente le qualità personali.

Nel suo ultimo libro “Vinci o impari” lei parla molto del tema della sconfitta e della sua accettazione. Che cosa si impara o cosa si dovrebbe imparare dalla sconfitta?

Dalle sconfitte ciascun atleta impara cose differenti. C’è chi impara che pur perdendo si resta in piedi. La sconfitta non è un fallimento. Un po’ quello che ha detto Pilato. Le sconfitte possono individuare aree di miglioramento tecniche e umane: una maggior pazienza verso se stessi, una maggiore umanità. Nel libro poi parlo di sconfitte, ma anche di altri momenti delicati nella vita di uno sportivo, che sono gli infortuni o le relazioni difficili con gli allenatori. Ci sono storie diverse che raccontano come i campioni dello sport facciano tesoro di ciò che gli accade, e poi lo riportino nello sport. Io non insegno, ma cerco di allenare ad affrontare queste difficoltà. Gli atleti sovente non si perdonano di aver sbagliato qualche cosa. Ma allenandosi a vivere questi momenti come crescita e non come momenti di arresto, allora anche le situazioni difficili diventano poi positive. Dalle vittorie difficilmente si impara qualcosa, dalle sconfitte quasi sempre.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.

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