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E' la Lowflation il New Normal mondiale?

Ecco la view di Canegrati analista finanziario a Blackpearlfx .

I banchieri centrali si riuniranno sul finire di questa settimana a Jackson Hole, nel Wyoming, per l'ormai tradizionale simposio di economia e finanza internazionale, nel quale solitamente gli esperti discutono delle loro azioni di politica monetaria e dei principali temi di attualità finanziaria.

L'incontro di quest'anno cade in un momento molto delicato per le banche centrali, alle prese con le incognite legate agli effetti dell'uscita dalla politica di stimoli monetari eccezionali, iniziati esattamente dieci anni fa per contrastare la più grande crisi finanziaria che l'Occidente abbia vissuto dal Secondo Dopoguerra. Tanto la Fed quanto la Banca Centrale Europea, senza dimenticarsi della Bank of England e della Bank of Japan sono alle prese con delicate decisioni da prendere relative al rialzo dei tassi d'interesse e alla cessazione del programma di acquisto degli asset (BCE) o di riduzione dell'attivo di bilancio (FED), conseguenti al miglioramento complessivo dell'ambiente economico. I tassi di crescita del PIL, tanto nell'Eurozona che negli Stati Uniti, hanno ormai raggiunto i valori pre-crisi. Soltanto pochi giorni fa la New York Federal Reserve ha rivisto al rialzo le stime di crescita per il terzo trimestre del 2017 al +2,09%, al di sopra del +1,96% precedente. Contestualmente, l'agenzia statistica europea Eurostat ha certificato che l'economia dell'Eurozona è cresciuta, nel secondo trimestre del 2017, del +2,2%, battendo le stime degli analisti. Anche su base annuale la crescita del Pil stimata è pari al +2,2%.

Eppure, l'inflazione non cresce come le banche centrali vorrebbero. Gli ultimi dati rilasciati dal Dipartimento del Lavoro statunitense, infatti, stimano la crescita dell'indice dei prezzi al consumo (CPI) su base annuale pari al +1,7% nel mese di luglio, in aumento rispetto al +1,6% del mese precedente, un livello inferiore rispetto alle aspettative del board della FED. Il tasso d'inflazione è ancora più basso nell'Eurozona, con l'indice armonizzato dei prezzi al consumo (HCPI), benchmark di riferimento utilizzato dalla BCE, cresciuto soltanto del +1,3% nel mese di luglio, ben al di sotto della soglia obiettivo della BCE, fissato nel +2%.

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Una crescita robusta senza inflazione, o meglio con una inflazione modesta (cosiddetta "lowflation"). Per molti economisti e per gli stessi banchieri centrali, questa situazione anormale è diventata un autentico puzzle da risolvere che rappresenta il principale ostacolo a modificare la stance monetaria da ultra-espansiva a restrittiva. I libri di testo di macroeconomia hanno sempre insegnato, infatti, che quanto la produzione migliora e il mercato del lavoro si fa più robusto, i salari cominciano ad aumentare perché la manodopera comincia a scarseggiare e le imprese sono costrette ad aumentare la paga dei lavoratori. In questo modo, l'aumento dei salari si scarica sull'aumento dei prezzi di produzione e quindi su quelli finali. Ovvero, aumenta l'inflazione. Questo era però vero fino a qualche anno fa. Con l'avvento dell'economia globalizzata, dove per le imprese, soprattutto le grandi multinazionali, è facile spostare i fattori produttivi (capitale e lavoro) nelle zone del mondo laddove essi costano meno, si crea una "downward pressure" sui costi di produzione, e quindi le imprese possono permettersi di offrire beni e servizi a prezzi più bassi, per battere la concorrenza. Può darsi, quindi (il teorema è ancora tutto da dimostrare con futuri dati empirici), che le forze della globalizzazione abbiano creato un nuovo paradigma ("new normal", come lo definiscono gli anglosassoni) grazie al quale, da qui in avanti, il tasso d'inflazione medio sarà sensibilmente più basso rispetto ai valori medi registrati nel passato, con economie più chiuse. Certamente, questo paradigma può tenere solamente se gli stati sovrani eviteranno di ritornare alle economie protezioniste e nazionaliste del passato. Ma questo è un tipo di analisi troppo complicato per essere affrontato in poche righe.

Quali conseguenze produrrà il new normal della lowflation sulle politiche monetarie delle banche centrali? E' la grande domanda alla quale i banchieri centrali di tutto il mondo stanno cercando di dare una risposta. La fase di rialzo dei tassi di interesse da parte di FED, BCE, BOE e BOJ è, infatti, sensibilmente in ritardo rispetto alle aspettative di qualche anno fa e i banchieri centrali hanno sempre motivato questo ritardo con l'esistenza di un tasso di inflazione ritenuto ancora troppo basso per dover richiedere una stretta decisa del costo del denaro. Ma se il paradigma della lowflation dovesse dimostrarsi verso, vorrebbe forse dire che nel lungo periodo ci dovremmo aspettare tassi d'interesse d'equilibrio costantemente più bassi rispetto al passato? E' impossibile ad oggi dare una risposta. Certamente, questo è lo scenario che ad oggi si sta verificando e sembra volersi mantenere anche nei prossimi mesi, se non anni. L'altra domanda alla quale i banchieri dovranno dare una risposta è quella relativa agli effetti del paradigma lowflation sui programmi di quantitative easing, in particolare sulla cessazione dei programmi di acquisto degli asset o di riduzione del bilancio della banca centrale. Questo, ovviamente, ha delle forti implicazioni sul pricing dei sovereign bonds che in una fase di inversione della stance di politica monetaria potrebbe subire effetti imprevisti, con un paventato crollo dei prezzi e aumento dei rendimenti. Questa una possibile lettura di quanto sta accadendo e di quanto Draghi, Yellen, Carney ed altri discuteranno a Jackson Hole. Le risposte, possibilmente, le vedremo tra qualche anno.

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