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Per cambiare l’Italia? Ci vogliono metodo, design thinking e pensiero laterale

Rimassa, autore di “È facile cambiare l’Italia”: una vera riforma del lavoro dovrebbe essere fatta con la progettazione partecipata

Un altro libro sul cambiamento, di primo acchito, non sembrerebbe certo una novità. Nemmeno se a scriverlo è quell’Alessandro Rimassa che, insieme ad Antonio Incorvaia qualche anno fa codificò la “generazione mille euro” nel libro omonimo, tradotto in 6 lingue e diventato anche un film. Eppure È facile cambiare l’Italia se sai come farlo (Hoepli), rappresenta un vero e proprio punto di vista “disruptive” sul cambiamento. Perché questo volume di 140 pagine è sì un manuale, ma è soprattutto un manifesto concreto su come agire. Indirizzato sì ai politici ma soprattutto ai cittadini che hanno voglia di mettere in atto buone pratiche mutuate dal mondo delle organizzazioni ma non solo, che Rimassa dimostra di conoscere bene e da vicino. È poi un hashtag, #facilecambiare su Twitter, grazie a cui vengono raccolte idee, propositi e tutto quello che può far sì che insieme si cambino le cose.
I 10 punti del manifesto prendono spunto dal design thinking e si rifanno a modus operandi di aziende e organizzazioni.

Questa idea di applicare certe pratiche alla politica e alla cittadinanza attiva da dove viene? E qual è l’obiettivo del libro?
“È nato da una mia riflessione personale: si parlava tanto di questi argomenti, si facevano incontri su sharing economy e tanto altro ma non c’era mai una razionalizzazione, nessuno che li mettesse in un percorso, che li codificasse e facesse sì venissero condivisi con tutti e non solo con una certa comunità. Inizialmente #facilecambiare era un monologo in cui, quando parlavo in pubblico, raccontavo delle storie. Poi ho cominciato a ragionarci, a vedere se c’era qualcosa sotto questa etichetta su Google e da lì ho pensato di registrare il dominio e di dare il via a tutto il progetto (basta un click su www.facilecambiare.it per vedere le parti di cui è composto, ndr). La mia riflessione è partita dal fatto che negli ultimi 20 anni la politica si è sempre più ripiegata su se stessa ed è scomparsa una indicazione intellettuale su come possa essere la società di domani. Quello che suggerisco in questo testo, in cui parlo, tra l’altro, di visione, co-creazione, circolazione del sapere ecc… è una questione di metodo non di contenuto, bisogna stabilire qual è il nuovo campo di gioco e progettare una società che includa davvero. Nel libro c’è tanto di organizzazioni, di aziende, di spunti che vengono dal mondo delle risorse umane, dall’estero, dalla formazione, ovviamente quella di rivolgermi ai politici è una provocazione, però dimostra che prendendo il buono di tutte queste cose, intese come metodologia, il cambiamento è possibile.

In proposito, è stato contattato da qualche politico?
“Da questo punto di vista, non ho avuto nessun risvolto, ma non me l’aspettavo. Però il libro sta avendo molto risalto in Rete, c’è una comunità attenta a questi valori, attenta al cambiamento, non c’è ancora stato quello switch che porterà tutto questo fuori e non so quando accadrà. Quello che posso dire è che c’è una comunità, di cui mi sento di far parte, che condivide questo cambiamento. Prima o poi qualcosa esploderà. L’Italia, comunque, è un paese complesso in cui perché qualcosa succeda davvero c'è bisogno di una prima serata in tv. Quanto ai politici, il libro parla molte lingue e la politica da questo punto di vista è alquanto indietro…”

Nel libro c’è una parte che riguarda la riforma del lavoro in cui le dice che con una progettazione partecipata si potrebbe finalmente fare una riforma del lavoro seria coinvolgendo coloro a cui è davvero destinata ossia i lavoratori. Può spiegarsi meglio?
Lavoro e fisco sono le riforme più facili, quella del fisco è un po' più facile, quella del lavoro non può prescindere dalla partecipazione delle persone che la vivono. Chi ci governa, ragiona come se ci conoscesse, ma non è così. Prendiamo le nuove generazioni: sono cresciute con genitori che perdevano l’impiego e non hanno il mito del posto fisso, piuttosto ambiscono a creare lavoro. Prendiamo, poi, anche la riforma Fornero, poteva essere giusta nei principi ma non per come è stata fatta. Basti pensare a come si è comportata con le partite Iva. Chi può migliorare davvero le cose? Forse qualcuno illuminato potrebbe farlo, ma siamo sicuri che conosce davvero tutte le situazioni dei lavoratori? Sarebbe più semplice ed efficace costruire una riforma del lavoro con la progettazione partecipata: non coinvolgendo i sindacati che ormai combattono per dei simboli che non rappresentano tutti, ma quelli davvero interessati: lavoratori assunti, precari e con partite Iva. Una riforma partecipata che avvenga in parte offline con workshop, incontri e anche online, che parta dalla comunità locale per arrivare in alto, ma che non sia totalizzante: non ci può essere una riforma del lavoro uguale per tutti. Credo molto nelle province, non come istituzione, ma come territorio, abbiamo tantissimi esperti che potrebbero aiutarci in questo coordinando una riforma del genere, entrando nel metodo e non nel contenuto. Sapendo raccogliere le istanze delle persone coinvolte, avremmo secondo me in 12 mesi la più grande riforma del lavoro che si possa fare. Questo progetto deve essere basato su principi di accountability: molto spesso si chiede a dei gruppi piccoli di fare delle proposte, il politico dice “grazie”, fa alcune cose ma poi va per la sua strada. Invece con questo principio si risponde pubblicamente di cosa si fa, del perché si è fatto così o del perché no. Tutto questo meccanismo ci permetterebbe di passare dalla protesta alla proposta vera”.

L'Istat ha presentato qualche settimana fa un rapporto sulla presenza in Italia di 10 milioni di indigenti.  Lei nel libro parla di jobtelling, pensiero laterale aiutato da video e conferenze di ispirazione, di rete, open data, puoi spiegare concretamente in che modo possono aiutare chi è senza lavoro?
“Nel 2002, nel momento in cui si passava dalla lira all'euro, ero un freelance e avevo due clienti, una radio e un giornale, ad un certo punto entrambi mi “scaricano” lasciandomi senza lavoro e facendomi diventare di colpo un freelance che non guadagnava quasi più nulla. Avevo 26 anni e vivevo da solo. Certo, avevo ancora delle risorse che venivano da lavori precedenti, ma erano destinate a esaurirsi. Allora, ho attivato il pensiero laterale: avendo del tempo libero, ho iniziato a studiare il mio mondo, quello della comunicazione, leggendo, guardando programmi, video. In quei giorni stava nascendo La7, c'era un programma in cui mi sembrava mancasse qualcosa, ho scritto agli autori, facendo una mia proposta e sono stata preso. E allora non ero molto conosciuto. Cosa ho fatto? Ho guardato il problema da un punto di vista diverso. Credo che oggi si debba fare così, non dico che questo risolva il problema del lavoro, ma reinventarsi può essere una parte della soluzione, soprattutto in una società in cui c’è davvero, grazie alla Rete, la condivisione del sapere. Lo dico a tutte le persone che perdono il lavoro e riguarda soprattutto i primi sei mesi in cui hai ancora voglia di cercare: ok mandare curriculum ma non a tutte le ore, una parte del tempo che hai va impiegata studiando, osservando, attuando così il pensiero laterale”.