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Personal branding: perché è sempre più importante per trovare lavoro

Cosa è cambiato in 3 anni nella promozione di se stessi sul web. Intervista a Tommaso Sorchiotti

Personal Branding, Luigi Centenaro - Tommaso Sorchiotti (Hoepli)

Lavoro e Internet sempre più collegati. Non solo perché Internet offre e potrà offrire posti di lavoro (in Italia secondo il rapporto “Crescita digitale” al momento rappresenta il 2% del Pil), ma anche perché sembra sempre più che la partita tra il trovare un nuovo impiego (o cambiarlo) e chi lo sta cercando si giochi in un campo che ha come confini computer, tablet e/o smartphne. Ossia tutti quei mezzi che consentono di andare in Rete.

E a questo è connesso un altro concetto: la reputazione online è fondamentale. Da qui si evince che  – se vogliamo trovare un impiego – dobbiamo lavorare al meglio perché il nostro "marchio” possa dire tutto di noi e aiutarci a inserirci in determinati contesti lavorativi.

Tommaso Sorchiotti e Luigi Centenaro ne sono così convinti che hanno dato vita qualche mese fa alla seconda edizione di un libro che nel 2010 è stato l’antesignano di una lunga serie di studi e incontri sul tema. Titolo: “Personal branding – Promuovere se stessi e trovare nuove opportunità”, editore Hoepli. Ne parliamo con Tommaso, 33 anni, che si definisce digital & creative strategist e su Twitter è da così tanto tempo (inizi 2007) che il suo account è semplicemente @tommaso.

Intanto, una curiosità: perché una seconda edizione? Cosa è cambiato nel mondo del lavoro alla luce del personal branding?
“Be’, a distanza di 3 anni il tema del personal branding è ancora più attuale e il testo iniziava ad accusare l’età. Era interessante riprendere il filo del discorso, svecchiare alcuni concetti e attualizzare gli strumenti online a disposizione, che nel frattempo si sono evoluti notevolmente. A livello sociale, le attenzioni verso certi canali così come i cambiamenti di comportamento sono sotto gli occhi di tutti. Twitter è ora la voce di ogni persona e in tv è diventata la parola più citata dopo 'piccolo break pubblicitario'. Facebook era già affermato nel 2010 mentre Instagram era appena stata lanciata. Ad ogni modo ancor più dei canali è interessante notare quanto le giornate siano pervase di spazi relazionali online. Pertanto anche nel mondo del lavoro c’è più attenzione, consapevolezza e interesse a quanto si dice e a come ci si comporta in Rete”.

Personal branding per tutti o ad esempio gli ultracinquantenni, che risentono molto della crisi (ma di cui non si parla spesso) non hanno molte chance in questo senso?
“Quando si parla di personal branding si fa riferimento ai giovani per la loro vicinanza alla Rete e per il loro (presunto) spirito di iniziativa. In realtà un ultracinquantenne ha le stesse possibilità di un neolaureato e non deve necessariamente confrontarsi professionalmente con i suoi coetanei. Può ricevere conferme e segnalazioni LinkedIn come mention su Twitter anche dai più giovani”.
 
Ci cita due esempi italiani di chi ha trovato lavoro con il personal branding?
Damiano Tescaro, che ha utilizzato un semplice video-CV per farsi notare e assumere in Irlanda e Fabio Lalli che ha puntato sulla community di appassionati del suo settore, restando coerente al suo credo”.

Spesso però c’è chi dice che gestire la reputazione online è più facile per chi fa il giornalista, il blogger, il pubblicitario e non per esempio se si ha un’officina o uno studio d’architettura. E' così?

“Non proprio. Sempre più persone utilizzano Google per trovare l’officina o lo studio di architettura di cui hanno bisogno, per cui la reputazione personale e quindi i risultati di Google influenzeranno molto le scelte di acquisto o anche solo di primo contatto. Inoltre le persone, complice il periodo economicamente impegnativo, si stanno abituando a informarsi e confrontare le opzioni che hanno a disposizione”.
 
E un lavoratore dipendente come può sfruttare il personal branding per trovare lavoro se ad esempio non può farlo in maniera visibile? Voi dedicate un intero capitolo al personal branding in azienda. Ci spiega meglio la differenza tra chi ha per esempio un ruolo da manager e chi no?
“Un’azienda che ha un dipendente appassionato e competente di un tema specifico (tanto più se inerente alle attività lavorative) e non gli dà la possibilità di esprimersi, getta alle ortiche un’opportunità enorme. Le relazioni autentiche che un dipendente può creare per se stesso e di conseguenza per l’organizzazione per cui lavora sono un capitale sociale fondamentale, da non trascurare. Poi è chiaro che il manager rappresenta in misura maggiore l’azienda rispetto allo stagista, ad esempio. E deve essere consapevole che le sue azioni pubbliche hanno una ricaduta per l’immagine della struttura dove lavora”.
 
Il libro prevede alla fine dei vari capitoli un 'cosa puoi fare oggi'. Perché questa scelta e cosa dovrebbe portare?
“Ad attivare una riflessione e muoversi oggi. Piccoli passi ma da subito. Il buon vecchio detto latino festina lente, affrettati lentamente, rende l’idea. Riflettere sul fatto che si parte da se stessi e si possono ottenere risultati molto interessanti con impegno e costanza”.
 
Ultima domanda: in cosa l’Italia è indietro per il personal branding e in cosa è avanti?

“Gli italiani sono ancoratissimi all'immagine e quindi, in parte, all'apparenza. Nel bene e nel male quindi l'attenzione che si dà alla confezione del regalo, più che al regalo stesso, è in media più elevata degli altri Paesi, secondo la mia esperienza. E così si cura in maniera molto attenta il modo di vestire e le foto in cui si appare, si presta attenzione ai particolari, e si da meno importanza ai contenuti che si condividono e al modo di esprimersi. Gli italiani sono bravissimi a far colpo come prima impressione!”.