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Petrolio: per Hsbc rischio contrazione dal 2018

La crisi del greggio si arricchisce di un’altra incognita: stando a un report della Hsbc, il 50% dei giacimenti ha superato il livello di massima produzione ed è perciò avviato verso un inesorabile declino già dal prossimo anno. Tradotto in numeri il 64% della produzione petrolifera mondiale, che fornisce circa 60 milioni di barili su un totale di 90, è in calo.

Cosa significa questo?

Che dal 2018 fino, orientativamente, al 2040, si potrebbe dover affrontare un lento processo caratterizzato da una carenza di offerta in contrapposizione a un aumento della domanda, in parallelo a una crescita dell’economia (si spera) globale che potrebbe far aumentare la domanda di petrolio di circa un milione di barili l’anno. Anche in questo caso sono i numeri a parlare: il tasso di calo della produzione dovrebbe aggirarsi intorno al 5-7% in meno ogni anno, il che porterebbe, nel corso del periodo 2018-2040, a perdere tra i 41 e i 48 milioni di barili. Si tratterebbe, in estrema sintesi, del tanto temuto supply crunch già teorizzato a settembre dello scorso anno e che andrebbe ad accompagnarsi ad un aumento della domanda di greggio con un gap definitivo che arriverebbe a 55-60 milioni di barili entro il 2040. A questo si aggiungano anche i quantitativi mancanti e attribuibili al calo delle forniture derivante dai tagli sul capex e sugli investimenti per le ricerche operato dalla maggior parte delle multinazionali, proprio in seguito alla crisi del greggio partita nel 2014. Ecco allora che allo squilibrio tra una domanda estremamente debole (causa crisi mondiale e diminuzione dell’interventismo cinese) e un’offerta estremamente forte (causa surplus produttivo dettato anche dai recenti record di estrazione a loro volta favoriti, oltre che dalla rivoluzione shale, anche dalle innovazioni tecnologiche che permettono di massimizzare la resa) , in gergo tecnico l’oversupply, si andrà a sostituire il crunch supply.

La crisi del greggio

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Il greggio sempre più protagonista, in un modo o nell’altro, delle cronache finanziarie. Da circa due anni, infatti, quello che una volta poteva definirsi oro nero ha toccato il fondo dei 24 dollari al barile a febbraio del 2016 per riuscire ad arrivare, alla fine dello stesso anno, nella baraonda del mercato, quasi a triplicare quella cifra con i 60 dollari al barile di fine dicembre all’indomani dell’annunciato accordo tra i paesi Opec e, inaspettatamente, anche alcune nazioni esterne all’organizzazione. Una certezza che però non ha permesso agli operatori di dormire sonni tranquilli. Troppe le dinamiche che influenzano le quotazioni. tra queste anche il fattore X, quel nuovo protagonista degli energetici sul quale nessuno, qualche anno fa, avrebbe scommesso. Chi, infatti, all’inizio del millennio, avrebbe creduto agli Usa non solo come potenza energeticamente autosufficiente ma addirittura esportatrice. Invece, oggi, è proprio Washington che, libera dalla dipendenza della dittatura mediorientale, può permettersi il lusso di rappresentare un fattore destabilizzante per l’Opec. In altre parole: si sono invertiti i ruoli e ora sono gli Usa a “ricattare” l’Opec.

Il fattore Usa

Il patto chiuso con tanta fatica e pubblicizzato con tanta enfasi, potrebbe rivelarsi del tutto inutile: il calo drastico dell’offerta dalle nazioni produttrici permetterebbe ai produttori a stelle e strisce di riaprire quei giacimenti chiusi perchè diventati antieconomici. Non solo, ma le quote di mercato inevitabilmente abbandonate dalla contrazione di forniture Opec verrebbero occupate proprio dai produttori statunitensi i quali, ultimo dei paradossi, aiutati dagli sgravi fiscali e dalla politica di incentivi del prossimo governo Trump, potrebbero invadere il mercato con il loro shale oil creando un nuovo crollo dei prezzi e rendendo vano ogni sforzo fatto in sede diplomatica. Attualmente, stando alle ultime cifre ufficiali comunicate dall’Opec nel suo rapporto mensile, l’output ha registrato un calo di 221 mila barili giornalieri. Dall’altra parte, però, arrivano le stime dell’ Energy Information Administration statunitense, che parlano di un aumento della produzione per febbraio pari a 40.750 barili al giorno il che porterà il saldo a 4,748 milioni di barili, confermando una fase di intensificazione dopo il calo degli ultimi tre mesi, un cambio di rotta dettato, come prevedibile, proprio dal rialzo delle quotazioni registrate e che hanno portato il Brent a 54,66 e il Wti a 51,72 dollari al barile.

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