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Previdenza complementare, i vantaggi

TFR (Fotolia)

Sei un giovane lavoratore dipendente entrato da poco nel mercato del lavoro? Sappi che hai davanti a te la non esaltante prospettiva di andare a riposo non prima di 67 anni di età e con una pensione, calcolata sulla base dei contributi effettivamente versati nel corso della vita attiva, pari grosso modo alla metà del tuo ultimo stipendio. E se sei un lavoratore autonomo ti andrà anche peggio. Il tuo assegno previdenziale, infatti, sarà pari a meno di un terzo del tuo ultimo reddito da lavoro. Si potrebbe pensare che, per citare il titolo di un famoso film di qualche anno fa, “Non ci resta che piangere”. In realtà qualcosa si può fare per migliorare il proprio futuro. Il suo nome è previdenza complementare. Accanto a quella pubblica, che è obbligatoria per tutti i lavoratori, infatti, esiste quest’ulteriore opportunità di risparmio a cui lo Stato riconosce una serie di agevolazioni fiscali. Anche nel caso si effettuino versamenti a favore di familiari fiscalmente a carico.

Il concetto alla base della previdenza complementare è accantonare regolarmente una parte dei  risparmi durante la vita lavorativa nella speranza di poter aggiungere qualcosa alla pensione pubblica. E’ il modo più diffuso che gran parte degli Stati utilizzano per permettere ai lavoratori di ottenere un assegno previdenziale complessivamente pari a circa l’80 per cento dell’ultima retribuzione.

In Italia la previdenza complementare nasce all’inizio degli anni ’90 (Decreto legislativo 124 del 1993) per contrastare il peso sulla spesa pubblica dell’aumento della durata della vita media e il rallentamento della crescita economica. Lo Stato pianificò, allora, questo pilastro del sistema pensionistico legato all’importo dei contributi versati, al loro rendimento con l’investimento sui mercati finanziari e alla lunghezza del periodo di versamento. In particolare per i lavoratori dipendenti le fonti di finanziamento di questo tipo di previdenza sono rappresentate da: contribuzione del lavoratore, contribuzione del datore di lavoro (o committente) e il versamento del trattamento di fine rapporto (Tfr). Quest’ultimo merita un chiarimento ulteriore prima di passare alle diverse forme pensionistiche complementari.

Il Tfr è una retribuzione differita che il datore corrisponde al dipendente in ogni caso di cessazione di rapporto di lavoro subordinato. E’ una peculiarità italiana e costituisce la ciambella di salvataggio di qualsiasi lavoratore. Tanto che è stato creato un apposito fondo di garanzia dell’Inps in caso di insolvenza del datore di lavoro. Il Tfr si calcola sommando per ciascun anno di servizio una quota pari e comunque non superiore all’importo della retribuzione dovuta per l’anno stesso diviso per 13,5 (è pari al 6,91 per cento della retribuzione). Annualmente il Tfr accantonato viene rivalutato di un tasso determinato da una quota fissa dell’1,5 per cento e dal 75 per cento dell’aumento dell’indice dei prezzi al consumo accertato dall’Istat rispetto al mese di dicembre dell’anno precedente.

Il conferimento del Trattamento di fine rapporto a una forma pensionistica è uno dei concetti portanti della previdenza complementare. Nel 2005 una riforma della materia, che non si applica ai dipendenti del pubblico impiego, stabilisce il meccanismo del silenzio-assenso. Così dal 1º gennaio 2007 il lavoratore dipendente dovrà scegliere entro sei mesi se destinare il Tfr ai fondi pensione (sia di categoria che aperti).

Nel caso in cui il lavoratore non effettui nei termini di legge una scelta esplicita, il datore di lavoro trasferisce il Tfr alla forma pensionistica collettiva di riferimento, cioè a un fondo negoziale oppure a un fondo pensione aperto individuato in base ad accordi collettivi. In presenza di più forme pensionistiche collettive, il Trattamento di fine rapporto viene trasferito a quella cui abbia aderito il maggior numero di lavoratori dell’azienda. Qualora non vi sia una forma pensionistica collettiva di riferimento, il datore di lavoro trasferisce il Tfr maturando (ossia quello che matura dopo l’adesione a un Fondo) al FondInps, la forma pensionistica complementare istituita presso l’Inps. Tutte le forme pensionistiche o di previdenza complementari prevedono che i lavoratori, durante il corso della loro vita lavorativa, possano richiedere anticipatamente la liquidazione di parte del loro Tfr. Nello specifico ogni lavoratore in qualsiasi momento può ottenere l’anticipazione del 75 per cento del Tfr maturato alla data della richiesta per spese sanitarie straordinarie per sé, per il coniuge o per i figli. In altri casi sarà necessario attendere otto anni di iscrizione alla forma di previdenza complementare. Chi poi decide di lasciare il proprio Tfr in azienda può chiedere solo l'anticipazione massima del 70 per cento dopo 8 anni di attività lavorativa presso lo stesso datore di lavoro per spese mediche straordinarie e per acquistare la prima casa per sé o per i figli.

Il quadro delle forme pensionistiche complementari è piuttosto vario. Attualmente le possibilità sono essenzialmente quattro. Eccole più nel dettaglio.


Fondi chiusi o negoziali.
Sono istituiti dai rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavori nell’ambito della contrattazione nazionale, di settore o aziendale. A questa tipologia appartengono anche i fondi pensione cosiddetti territoriali, istituiti cioè in base ad accordi tra datori di lavoro e lavoratori appartenenti a un determinato territorio o area geografica. Questo tipo di Fondi, oltre al Tfr dei lavoratori possono raccogliere ulteriori versamenti effettuati sia dai lavoratori sia dai datori di lavoro. L’adesione a questi Fondi, tuttavia, non obbliga a versamenti ulteriori, in aggiunta al Tfr.

Fondi aperti.
Sono forme pensionistiche complementari istituite da banche, imprese di assicurazione, Società di gestione del risparmio (Sgr) e Società di intermediazione mobiliare (Sim). Questi fondi possono essere scelti per la destinazione del TFR da tutti i lavoratori. Il patrimonio dei Fondi resta comunque separato da quello della società che l'ha istituito, in modo da salvaguardare il credito dei lavoratori. Anche in questo caso l'adesione non obbliga a versamenti ulteriori, in aggiunta al Tfr.

Pip (Piani individuali Pensionistici).

In genere sono creati dalle imprese di assicurazione attraverso polizze assicurative sulla vita con finalità previdenziali. Anche in questo caso il patrimonio dei PiP resta separato da quello della compagnia di assicurazione che l’ha istituito.

Fondi preesistenti.
Sono le forme pensionistiche presenti prima del 1993 quando la previdenza complementare è stata disciplinata per la prima volta. Dal 2007, con un disposto alla Riforma della previdenza complementare, si sono sempre più allineati agli attuali Fondi pensionistici integrativi.

L’adesione alla previdenza complementare non ha solo i vantaggi legati alla possibilità di garantirsi una pensione più sostanziosa. Sono previste, infatti, specifiche agevolazioni. Durante la vita lavorativa i versamenti a carico del lavoratore e del datore di lavoro sono dedotti dal reddito imponibile, entro il limite di 5.164,57 euro. Il risparmio fiscale generato sarà minimo del  23 per cento (aliquota Irpef minima applicabile). I rendimenti prodotti sono tassati all’11 per cento anziché al 12,50 per cento previsto per tutte le altre tipologie d’investimento. Poi durante il pensionamento, in cui si percepisce la rendita della Forma di previdenza complementare, la parte derivante dai versamenti dedotti, quindi non tassati in fase di contribuzione, è tassata al massimo al 15 per cento. Tale aliquota si riduce di 0,3 punti per ogni anno di adesione, fino ad un massimo di 6 punti. La rendita derivante dai versamenti non dedotti e dai rendimenti finanziari, già tassati durante la fase di accumulo, è esente da tassazione. Inoltre la rivalutazione riconosciuta alla rendita negli anni di erogazione è tassata al 12,50 per cento.

La freddezza dei numeri non ha convinto la maggior parte dei lavoratori italiani. Così a poco più di cinque anni dal lancio in grande stile della previdenza complementare, gli iscritti al 30 settembre 2012 sono complessivamente meno di 6 milioni, il 27 per cento del totale. Un valore in crescita del 4 per cento rispetto al 2011, ma solo  grazie ai Pip che sono aumentati del 15,2  per cento. Sono ancora 12-15 milioni coloro che rimangono fuori dalla previdenza integrativa. Le ragioni del poco successo sono da ricercare anche nel fatto che la copertura del sistema previdenziale pubblico è ancora buona. I fondi privati, invece, dal canto loro, non sono a capitale garantito, in particolare in caso di fallimento del fondo stesso o delle imprese private in cui ha investito il capitale raccolto. La crisi dei subprime e il conseguente crollo delle Borse ha aumentato ulteriormente la diffidenza verso questo tipo di scelta pensionistica. Nonostante tutto, per il bene delle finanze pubbliche, la strada, è ormai segnata nella direzione della previdenza complementare. Per l’Italia il percorso da fare è, quindi, ancora lungo. Il nostro Paese dovrà cominciare a correre se vuole raggiungere l’80 per cento di adesioni del Regno Unito e degli Stati Uniti d’America.