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Quale certificazione per i consulenti finanziari

La certificazione delle competenze e conoscenze del consulente finanziario accende il dibattito nell’industria della distribuzione dei prodotti finanziari, dopo la pubblicazione a fine aprile del documento consultivo dell’Esma (associazione delle autorità di vigilanza europee) in materia, in applicazione della normativa comunitaria Mifid 2.

Quest’ultima afferma all’articolo 25, che gli stati membri dovranno richiedere alle aziende di investimento di assicurare e dimostrare alle autorità competenti che le persone fisiche che erogano servizi di consulenza sugli investimenti posseggano adeguate competenze ed esperienze. A tal proposito, l’Esma usa il termine “appropriate” e declina all’autorità nazionale le specifiche. Il documento consultivo stabilisce anche che ciò non si applica se nell’impresa esiste uno staff di persone con almeno cinque anni di “appropriata esperienza”.

Per la prima volta, autorità di vigilanza (Consob), associazioni di categoria (tra gli altri Assoreti, Anasf e Abi) ed enti formatori (Efpa) si sono confrontati sul tema all’ITF di Rimini lo scorso 21 maggio. Sono emersi due orientamenti, uno di emanazione bancaria e l’altro proveniente dal mondo delle reti e dei promotori finanziari.

La proposta del mondo bancario
Il primo, presentato da Aida Masiano, responsabile di AbiFormazione, ha le basi nel Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente (EQF) e fa perno sulla misurazione dei risultati della formazione (learning outcome). E’ strutturato su otto livelli costituiti da un insieme di abilità, conoscenze e competenze che bisogna aver acquisito al termine del programma di education. L’associazione delle banche italiane ha già provveduto a mappare i ruoli organizzativi all’interno degli istituti e assegnare un certo livello di EQF. Nella stessa direzione si sta muovendo il settore assicurativo, ma non quello della promozione finanziaria.

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…e degli intermediari
Per Marco Tofanelli, segretario generale di Assoreti, la formazione del consulente “deve partire dal basso”, ossia dai bisogni della clientela, ed evolversi contestualmente ai mutamenti economico-sociali. Comprende tutti gli aspetti legati alla gestione del risparmio, tra cui la pianificazione previdenziale, l’educazione finanziaria, il bilancio familiare, il settore immobiliare e l’orientamento allo studio dei figli. L’investimento degli intermediari nella formazione deve dunque essere a 360 gradi e affiancare a quella obbligatoria e certificata (ad esempio per l’accesso alla professione e l’Efpa), la componente informale (infrastrutture e strumenti messi a disposizione del consulente per l’esercizio delle sue attività, compreso l’utilizzo delle nuove tecnologie).

Nuove forme professionali
Il settore della consulenza attraversa un momento di profonda trasformazione e sta uscendo da un decennio difficile, come ha detto Maurizio Bufi, presidente dell’Anasf. I driver principali sono la normativa e le dinamiche di mercato. Le risposte non sono solo nella formazione, ma anche in nuove forme professionali, comprese le persone giuridiche.

Quali benefici dalla Mifid 2?
Tra i consulenti finanziari, è ancora elevato il grado di incertezza sul futuro della professione, come emerge da un sondaggio condotto da Anna Ponziani per ITF in collaborazione con Natixis (Parigi: FR0000120685 - notizie) global asset management su 322 operatori del settore, tra aprile e maggio. Gli intervistati giudicano positive le modifiche che verranno introdotte dalla normativa Mifid 2 (che entrerà in vigore il 3 gennaio 2017), anche se per il 46% non è detto che i benefici si riflettano necessariamente in termini di minori costi dei prodotti di investimento. Inoltre, circa il 40% è convinto che la certificazione delle competenze non inciderà più di tanto sulla relazione con il cliente, ma il 57% la ritiene importante per la crescita professionale.

Una diversa percezione della realtà
Dal questionario emerge anche che i consulenti hanno una consapevolezza più elevata dei rischi che possono minacciare la sicurezza finanziaria dei risparmiatori quando andranno in pensione e che questi ultimi sovrastimano le loro conoscenze nell’ambito degli investimenti. Solamente il 22% dei consulenti intervistati dichiara che i propri clienti hanno una buona conoscenza finanziaria, contro il 34% degli individui; inoltre solo il 42% ritiene che i propri clienti conoscano il livello di rendimento necessario per raggiungere i propri obiettivi contro ben l’83% degli individui.

Che il livello di educazione finanziaria dei risparmiatori sia basso è confermato anche dall’Osservatorio Consob sulle scelte di investimento delle famiglie italiane, dal quale emerge che il concetto di inflazione non è noto a quasi la metà del campione (47,4% degli intervistati). Solo il 46% indica correttamente cosa significa diversificare gli investimenti e meno del 43% è in grado di definire la relazione tra rischio e rendimento.

Sempre l’indagine della Consob, però, rivela che la domanda di consulenza in Italia rimane contenuta: solo il 24% degli investitori privati si è dichiarato interessato nel 2014 e il 40% dice di non avere un “consulente di fiducia”. La disponibilità a pagare questo servizio è limitata, ma il grado di soddisfazione è elevato se c’è un’alta personalizzazione delle proposte di investimento.