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Riuniti contro i licenziamenti selvaggi, ma ancora senza un piano

Draghi/Orlando (Photo: getty)
Draghi/Orlando (Photo: getty)

Quando da Firenze arriva la notizia dello stop del tribunale del lavoro alla procedura di licenziamento per i 422 lavoratori della Gkn di Campi Bisenzio, a palazzo Chigi è in corso una riunione. Presiede Francesco Giavazzi, consigliere economico di Mario Draghi, e al tavolo siedono i tecnici dell’ufficio legislativo del ministero del Lavoro e dello Sviluppo economico. Si parla di licenziamenti e di delocalizzazioni, meglio di come governare un processo che in alcuni casi è sfuggito di mano, come dimostra proprio il caso della Gkn. Le strutture del dicastero guidato da Andrea Orlando spingono per una procedura rafforzata. Lo schema, che Huffpost è in grado di anticipare, parla di una fase di discussione di 90 giorni tra l’impresa che intende licenziare e chiudere, il Governo, i sindacati e la Regione dove è ubicato lo stabilimento. Una terza fase, da collocare a monte delle due che già esistono e che prevedono un doppio tentativo di conciliazione da portare a termine rispettivamente entro 45 e 30 giorni.

La procedura rafforzata funzionerebbe grosso modo così: l’impresa con più di 250 dipendenti che intende chiudere comunica l’intenzione al ministero del Lavoro e a quello dello Sviluppo economico. Si avvia così un fase di confronto dalla durata massima di tre mesi, una sorta di camera di compressione tra i soggetti citati sopra. Se si raggiunge un accordo, allora è inutile passare alle due fasi previste dalla legge 223 del 1991 che disciplina i licenziamenti collettivi. In caso di mancato accordo, invece, si attiva la seconda fase e, se ancora non si arriva a un’intesa, anche la terza. Ma prima, quindi già alla fine della prima fase, l’impresa deve pagare il ticket di licenziamento, il contributo che è tenuta a versare all’Inps per finanziare l’indennità di disoccupazione del lavoratore che perde il posto. E dovrà pagarlo doppio, cioè due volte per ogni licenziato.

A palazzo Chigi si discute per circa due ore, ma al termine della riunione i partecipanti prendono atto del fatto che bisognerà lavorare ancora per trovare una quadra. I tecnici della presidenza del Consiglio non sono affatto convinti che l’impianto messo a punto dal ministero del Lavoro possa andare bene. Prima di capire perché è utile aggiungere un altro elemento alla discussione. L’intervento della magistratura sui licenziamenti alla Gkn rinfocola le rivendicazioni del Pd e dei 5 stelle. Prima Enrico Letta, seguito da un pezzo importante del partito, poi Giuseppe Conte, anche lui scortato dalle dichiarazioni del Movimento, rilanciano il decreto anti delocalizzazioni che durante l’estate aveva generato più di una polemica tra un pezzo del Governo e Confindustria. È il decreto Orlando-Todde, chiamato così perché a scriverlo sono stati il ministro del Lavoro e la viceministra allo Sviluppo economico. La prima versione parlava di multe e black list, poi il testo è stato ridimensionato nell’aspetto sanzionatorio, anche per la contrarietà a uno schema troppo severo da parte del ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti.

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Rilanciato costantemente dai dem e dai grillini ad agosto come in dirittura d’arrivo, il decreto anti delocalizzazioni non è mai arrivato sul tavolo del Consiglio dei ministri. Al rientro dalla pausa estiva è finito a palazzo Chigi e qui il premier e i suoi collaboratori hanno deciso di svuotarlo. Non si è salvato neppure il nome. La riunione di oggi certifica che mentre un pezzo della maggioranza spinge per ripristinare il decreto, a palazzo Chigi si lavora a tutt’altro. In poche parole: non ci sarà alcun decreto anti delocalizzazioni, tantomeno multe e black list. Quello all’esame è un provvedimento decisamente più contenuto e che non ha ancora il via libera della presidenza del Consiglio.

Si arriva così ai dubbi emersi alla riunione di oggi. Quello che non convince palazzo Chigi è la necessità di aggiungere una terza fase a due che già esistono e che hanno modalità simili. Portato all’estremo, questo ragionamento si risolve grosso modo così: ha senso intervenire con delle norme, tra l’altro con il rischio di mettere in discussione gli equilibri con il mondo delle imprese (Draghi sarà all’assemblea di Confindustria giovedì), quando ne esistono già di simili? Già la legge 223, come si diceva, prevede due fasi di conciliazione. La prima, che scatta dopo la comunicazione dell’azienda ai sindacati, prevede un esame congiunto e può durare al massimo 45 giorni. Se non si trova un accordo, il tutto passa all’ufficio provinciale del lavoro, dove ci sono altri 30 giorni di tempo per arrivare a un’intesa. Rispetto all’impianto attuale, la proposta del ministero del Lavoro anticipa il pagamento del ticket di licenziamento: in questo modo si inserisce un fattore di pressione sull’azienda che affronterà poi la seconda ed eventualmente la terza fase di confronto. Soprattutto inserisce il Governo nella mediazione tra le parti. Ma il rischio - e questi sono i dubbi di palazzo Chigi - è che la terza fase sia un preavviso del preavviso, peggio un duplicato che rischia di generare più danni che benefici su uno schema - quello della legge 223 - già funzionante e in attuazione della disciplina europea in materia. In altre parole, la fase a monte potrebbe svuotare le due previste dalla legge o essere indipendente.

Ha senso - è la domanda - aggiungere un elemento procedurale? Tra l’altro la decisione del tribunale di Firenze sulla procedura di licenziamento per i lavoratori della Gkn dimostra che le norme già ci sono. La sentenza, infatti, mette l’accento proprio sul diritto dei sindacati di conoscere per tempo le decisioni dell’azienda in materia di licenziamenti. Un passaggio della sentenza aiuta a spiegarlo meglio: “In definitiva la Gkn era tenuta ad informare il sindacato non solo dei dati relativi all’andamento dell’azienda, ma anche del fatto che il quadro delineato dai suddetti dati stava conducendo i vertici aziendali ad interrogarsi sul futuro dell’azienda stessa”.

Qui finisce la discussione tecnica. Poi c’è la partita politica. A palazzo Chigi sono ben consapevoli della spinta che arriva dal Pd. I dem sono chiamati a lanciare un segnale su un tema - i licenziamenti, più in generale il lavoro - che devono recuperare in agenda. I 5 stelle seguono a ruota. Poi c’è la Lega. Giorgetti vuole dare priorità a chi investe nelle aree di crisi e incentivi a chi decide di investire in Italia. Si è parlato anche di questo alla riunione presieduta da Giavazzi: da palazzo Chigi c’è il via libera, anche se andranno individuate le risorse necessarie a coprire i costi dell’operazione. Del decreto Todde-Orlando, invece, è rimasto davvero ben poco. Forse si salverà il piano che l’impresa deve presentare quando decide di chiudere, ma non ci sarà una valutazione in capo al ministero dello Sviluppo economico. Il rischio è quello di finire nel ginepraio dei ricorsi. E anche su questo palazzo Chigi ha detto no.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.