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Sabatino D'Archi: "Per superare un tumore al seno è necessario curare anche le paure della paziente"

Chi in tutti questi anni ha dovuto confrontarsi con la malattia tumorale, ha visto a causa del Covid complicarsi ancora di più un percorso di cure che già di per sé è molto articolato e doloroso per i pazienti. Le limitazioni imposte dalla pandemia non hanno agevolato gli spostamenti dei pazienti tra le varie regioni, ma anche il distanziamento, la paura della vicinanza fisica e le mascherine a coprire i volti durante una visita ambulatoriale hanno fatto la loro parte.

“Il Covid ha messo a dura prova anche il rapporto medico paziente” conferma Sabatino D’Archi, chirurgo senologo del Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, che nei giorni scorsi ha ricevuto il titolo di Laudato Medico, riconoscimento voluto da Europa Donna Italia, per mantenere viva l’eredità umana del professor Umberto Veronesi e per premiare gli specialisti che seguono i pazienti con particolare empatia e sostegno nel percorso di cura del tumore al seno. Un riconoscimento molto sentito perché arriva direttamente dalle pazienti.

“Prima l’approccio era più sulla malattia -spiega all’Huffpost, Sabatino D’Archi -, Umberto Veronesi ha messo al centro dell’attenzione la persona malata. Per curare qualcuno bisogna sapere chi è, che cosa pensa, quali sono i suoi progetti, di cosa gioisce, quali sono le ansie, le sue paure”.

Come è cambiato questo rapporto col tempo?

“Nel corso degli anni con l’umanizzazione della medicina sono stati promossi e titolati sempre di più i principi di ascolto, comunicazione, di supporto empatico nel rapporto medico paziente. Prima si tendeva a curare la malattia, quel particolare organo. Col tempo ci si è presi cura del paziente, della persona che ha quella particolare malattia. È diventato un approccio al paziente con i suoi bisogni con le sue paure, ci si prende cura della globalità della persona per cercare di migliorarne anche la qualità della vita in un momento così delicato come è il percorso della malattia. Questo è il modo più moderno di concepire la medicina. In particolare per chi lavora nel nostro settore. Umberto Veronesi diceva che chi sta in senologia fa un lavoro un po’ diverso da quello che fanno gli altri specialisti. Ed è vero perché la fascia d’età che può essere interessata dal tumore al seno - il tumore più diffuso e principale causa di morte per malattie oncologiche - è molto ampia: abbiamo pazienti dai 30 agli 80 anni. Quindi un conto è affrontare questa patologia quando si è più avanti con l’età, un conto è affrontarla quando la donna è giovane ed ha esigenze anche estetiche diverse. Il seno è un organo delicato anche per questo tipo di discorso: noi, come specialisti, dobbiamo sicuramente stare attenti dal punto di vista oncologico nel trattamento della malattia, ma non possiamo non prendere in considerazione anche l’aspetto estetico, visto che si tratta di una parte del corpo così importante per la preservazione della sessualità, della femminilità, della qualità della vita”.

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In questa fascia d’età così ampia cambia anche l’approccio della paziente alla malattia? Le più giovani stupiscono non solo per la forza, ma anche per il desiderio di parlare della loro esperienza con la malattia, vogliono condividere ogni aspetto. È cambiato anche qualcosa in loro?

“Dopo un po’ di anni ho capito che il momento della diagnosi è per tutte le pazienti un anno zero. C’è tutta una vita prima della diagnosi, e poi ne inizia un’altra dopo. È come se in quel momento scattasse un qualcosa dentro di loro. E nella stragrande maggioranza dei casi, dopo un iniziale momento - giustissimo - di choc, noto delle reazioni assolutamente importanti: le donne sono in quella fase guerriere. Mettono subito di fronte a se stesse la famiglia, i bambini piccoli, il marito. Cercano di proteggere i famigliari dal problema stesso: fingono di stare bene anche nei momenti più difficili, di non far notare gli effetti collaterali della chemio ai bambini per non fargli percepire che c’è un cambiamento. La forza, come diceva lei, delle pazienti in quella fase è straordinaria. Il momento di condivisione, il vedere che c’è chi c’è già passato ed è riuscito a sopravvivere, che sta bene, e riesce a condurre uno stile di vita normale, è assolutamente importante. C’è una onlus, la Komen Italia, con cui collaboro che permette alle pazienti, le donne rosa, di conoscersi, di spiegare come hanno vissuto il loro percorso cura. Questo a volte aiuta ancora di più delle parole del medico. Almeno in certe fasi e in certe situazioni”.

È cambiato tutto l’approccio, ora si utilizza quello multidisciplinare. Cosa significa?

″È stato dimostrato che i migliori risultati - anche dal punto di vista della prognosi e anche a lungo termine - sono collegati proprio all’approccio multidisciplinare. Attorno al paziente ci sono il chirurgo, l’oncologo, il radiologo, il radioterapista. Anche la psico-oncologa che è una terapista che riveste un ruolo fondamentale nel seguire le pazienti in questo percorso e nell’aiutarle ad affrontare la malattia. L’approccio multidisciplinare permette a ognuno di noi di mettere a disposizione del paziente quelle che sono le sue competenze. E alla fine, secondo le ultime evidenze scientifiche, si riesce a garantire per quella paziente una terapia “cucita addosso”. Prima si tendeva a fare una standardizzazione delle cure, oggi ogni terapia è mirata per quella paziente. Ogni paziente ha, oggi, una terapia propria, personale”.

Questo di più, questa empatia e sostegno alla paziente dipende solo dalla sensibilità dello specialista che si incontra o in qualche modo anche questo segue un certo protocollo?

“Il percorso universitario non prevede ovviamente un esame di empatia. Di solito le figure professionali che ci guidano nel mondo della medicina da studenti ci permettono di frequentare anche i reparti. E già da studenti riusciamo a vedere come ci si relaziona con i pazienti nelle diverse fasi. Io ho avuto la fortuna di nascere come studente sotto l’ala protettiva del prof. Masetti, per me un maestro. E da lui ho imparato tanto: come si comunica una diagnosi alla paziente, quali sono i tempi giusti, le parole giuste. Ho imparato a dedicare il tempo giusto alle pazienti durante questo percorso. Altro modo di comunicare con le pazienti l’ho imparato grazie alla Komen https://www.komen.it che si occupa da più di 20 anni di lotta ai tumori al seno. Ci permette di incontrare le pazienti anche in un altro contesto, in eventi di sensibilizzazione. Questo ci consente di entrare in contatto con le persone che stanno dietro alle pagine delle cartelle cliniche, ai telini degli ambulatori o della sala operatoria. Si creano legami che restano per sempre. Sia per i medici che per le pazienti. Tant’è vero che tante di quelle che nascevano come pazienti ora posso considerarle come amiche”.

C’è ancora qualcosa che si può migliora in questo rapporto paziente-medico?

“Ma sicuramente sì. I margini ci sono sempre. Penso si debba entrare proprio nell’ottica che la comunicazione tra medico e paziente ha la stessa importanza di quello che è il trattamento medico vero e proprio. Non può essere più considerata come una cosa che dipende dal carattere e dall’empatia del medico. Di base tutto ciò fa parte della cura della paziente, non è un qualcosa in più. Non facciamo nulla di speciale, questo deve essere norma per noi”.

Premio Veronesi (Photo: Premio Veronesi)
Premio Veronesi (Photo: Premio Veronesi)

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.