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Salvini e Meloni: sotto il populismo niente

ROME, ITALY - OCTOBER 1: Matteo Salvini (Lega political party leader) and Giorgia Meloni (Fratelli d'Italia Leader) take a selfie before a press conference organized by right-wing parties, Lega, Fratelli d'Italia and Forza Italia as part of the closing of the electoral campaign for the Mayor of Rome Enrico Michetti, at Spinaceto district, on October 1, 2021 in Rome, Italy. The mayoral elections in Italy's major cities including Rome, Milan, Turin and Naples - previously due to be held between 15 April and 15 June - will be held between 15 September and 15 October, according to a decree approved by the cabinet due to the Coronavirus pandemic. (Photo by Antonio Masiello/Getty Images) (Photo: Antonio Masiello via Getty Images)

Va bene i candidati, a partire dal goffo Michetti, che in conferenza stampa si presenta col “cappotto”, che è un indumento ma anche il titolo di giornata, come il cinque a zero per il Pd. Va bene pure che, parliamoci chiaro, la competizione tra i due rampolli del sovranismo è stata più forte di quella con l’avversario, preoccupato l’uno che non vincesse l’altra e l’altra che non si rafforzasse l’uno, nella chiave di chi guiderà la coalizione in futuro. Va bene il tema della leadership, del federatore che non c’è: una figura come fu Berlusconi ai tempi della discesa in campo, capace di tenere assieme diavolo e acqua santa e di instaurare una robusta connessione col paese.

Ma c’è qualcosa di più in questo risultato che amplifica tutte le tendenze già emerse al primo turno, aggiungendo elementi nuovi: alla debacle di Roma il risultato severo di Torino e la mancata riconquista di Varese, dove è nata la Lega e anche suo attuale governatore della Lombardia e dove Salvini è andato quattro volte nell’ultima settimana. E ancora: Trieste vinta di un soffio, perse Latina e Cosenza, città del governatore della Calabria eletto solo due settimane fa. Di sconfitte ce ne sono di vari tipi, questa certifica una crisi politica di fondo, che investe il tribuno pop Michetti ma anche l’imprenditore pragmatico Damilano, che piace tanto a Giorgetti. Strategica. E l’immediato tentativo di rimozione da parte di Salvini e della Meloni, nelle conferenza stampa dopo il voto sono parte di questa crisi: colpa della Lamorgese e delle forze dell’ordine, dei perfidi giornalisti che hanno orchestrato una campagna sul fascismo, della sinistra che criminalizza l’avversario (lo diceva anche Berlusconi, ma su questa “criminalizzazione” spesso vinceva pure), colpa di tutti fuorché di se stessi, nell’ambito comizietti per le proprie curve più che analisi di ciò che non ha funzionato e non funziona nel rapporto tra centrodestra e paese.

Sullo sfondo un discorso autoconsolatorio, che suona più o meno così: le politiche sono un altro film, l’una ha più o meno il venti per cento, l’altro poco meno, il vecchio Silvio più o meno il sette, se la somma fa il totale, è fatta. E dunque, “al voto, al voto” come propone Giorgia Meloni a Salvini, che al voto però non può andare ma asseconda le sue pulsioni di “opposizione”. Tutto facile, e poco importa che, se i tre leader del centrodestra salissero domani su un palco per le politiche suonerebbero tre musiche diverse e la cacofonia qualche effetto lo fa: chi rivendicherebbe di aver salvato il paese con Draghi, chi accuserebbe Draghi (e dunque l’alleato) di averlo rovinato, chi metà e metà.

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La crisi è strategica perché il voto certifica che il centrodestra non è una coalizione politica e infatti al primo turno regge, trainato dalle liste, al secondo non ha un popolo che si mobilita, anzi perde proprio perché un pezzo del popolo, protagonista della “rivolta” ha abbandonato (per ora il populismo): quello pentastellato che prometteva “tutti a casa” e dopo essere stato con tutti pur di non andare a casa vince solo a Pinerolo, quello sovranista che, in tempi di pandemia, non è sensibile ai nemici artificiali – come l’Europa e gli immigrati – perché ha scoperto un nemico reale, e si è vaccinato nella sua stragrande maggioranza.

Non tiriamola per le lunghe: il Re è nudo, sotto l’abito del populismo il nulla. Il che non vuol dire che è finito, ma nelle forme in cui si è manifestato, ha perso la sua anima nel paese reale. E se è evidente che c’è un problema a valle della classe dirigente – i famosi civici, a proposito: in Toscana e in Emilia andò male anche con i politici – a monte la questione è più complessa, di sfasatura rispetto alla spirito del tempo: non è solo rispetto governo, ma rispetto alla principale questione di questo tempo il fuori sincrono: la pandemia, che ha mutato l’agenda più di quanto i leader abbiano compreso. Ed è già scontato il film che andrà in onda nei prossimi giorni, fatto di recriminazioni, tra alleati, lotte politiche dentro la Lega tra chi accuserà Salvini di non essersi calato nel governo e chi darà le colpe della disaffezione proprio alla presenza troppo condiscendente dal governo e spinte per un altro assetto, chiedete a Berlusconi che già lo ha detto che “quei due sono unfit”.

Però è tutto maledettamente complicato rispetto alla tentazione, con un occhio al pallottoliere, di vedere in questo risultato il trailer delle politiche. In un eccesso di comprensibile entusiasmo Enrico Letta ha dichiarato che “al Pd converrebbe andare a votare”, ma avendo a cuore l’interesse nazionale “sosterrà il governo fino al 2023”. Mica tanto, perché, fuor di propaganda, l’Ulivo 2.0 non c’è ancora e il centrosinistra, che pure ha un solido perno, ha il problema del deserto attorno. Solo la più rumorosa sconfitta altrui rischia di oscurare il dato di una crisi, altrettanto di fondo, che il doroteismo di Conte non ha risolto da quelle parti. Sarà anche “popolare” in piazza, ma alla sua prima da leader non ha tradotto la popolarità in consenso e prospettiva.

Più in generale, il tema, per un partito che si chiama democratico, è come costruire una alleanza col paese in una fase di crisi della democrazia. Il paese non è un grande porto di Triste, ma le urne suonano per tutti la sinistra campana della scissione tra sistema politico e popolo. Mai si era vista in Italia il sindaco di Roma eletto col 40 per cento dei partecipanti e nessuno sa in che forme si risveglierà quella protesta andata in sonno, se addomesticata nell’ambito della ricostruzione del paese o incattivita in conflitti vecchi e nuovi. Se cioè si è infettata la democrazia o se, questa la sfida, i tradizionali canali di rappresentanza possano di nuovo essere percepiti come vaccini utili. Ci sta uno spumantino a piazza Santi Apostoli, ma senza esagerare.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.

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