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Selezione delle risorse umane, cosa non funziona in Italia

Assenza di feedback e domande non consentite: ecco cosa andrebbe cambiato

Colloquio di assunzione

La centralità del lavoro nel dibattito pubblico italiano è sempre più lampante, ma non si vive di solo cuneo fiscale e disoccupazione, con annessa analisi della distanza tra i desiderata delle aziende e le potenzialità effettive degli inoccupati che cercano impiego. E' tempo,  per approfondire il dibattito, di estendere le domande, e la ricerca di risposte, ad altri atavici problemi del sistema italiano, compresi i ritardi che ancora si annidano nella misurazione qualitativa dei sistemi di carriera, e le distorsioni nei processi di selezione. Questi ultimi, pur restando cruciali per immettere talenti ed energie nuove in azienda, sono spesso limitati da ritardi culturali, prassi scorrette e valutazioni sommarie. Yahoo!Finanza ne parla con Luca Solari, professore ordinario di Organizzazione aziendale presso l'Università degli Studi di Milano e autore di numerosi libiri e saggi sul lavoro, pubblicati anche all'estero e curatore dei blog The Corporate Sense Maker e Tutto di Personale.

In un post sul blog "Tutto di personale" scrive che il campo delle risorse umano è visto con un'errata percezione umanistica, come se fosse un centro d'ascolto anziché un centro d'investimento. Perché succede, è una peculiarità italiana?


Abbiamo assistito a una tendenza a ridurre l'investimento nel settore, lo rivela anche un indicatore che calcola il rapporto tra numero di dipendenti e gli addetti alle risorse umane. In alcune aziende di 700 dipendenti circa, solo una persona si occupa delle risorse umane; una sola persona non può essere in grado di valorizzare individualmente ogni singolo dipendente. Per questo la gestione viene affidata a un service esterno molto efficiente, che però si interfaccia solo con i capi di alcune unità produttive. Nel nostro caso c'è anche l'aggravante che il nostro Paese è diventato sempre piu periferico nel mercato globale: se negli anni '90 nel nostro Paese aveva sede il settore "South Europe-Middle East-North Africa" di diverse multinazionali, adesso per le aziende è più conveniente avere sede direttamente in Medio Oriente, a Dubai. La parte sviluppo e innovazione delle risorse umane non ha più sede in Italia, ma è delocalizzata. Questa marginalità sui mercati dell'Italia ha ridotto molto la possibilità per i nostri talenti di essere considerati oggetto d'investimento.

L'Italia viene spesso accusata di essere arretrata dal punto di vista degli avanzamenti di carriera. Secondo lei quanto poco c'è di trasparente nella selezione?


È abbastanza comune non ricevere un feedback motivato dopo la selezione che spieghi perché si è scelto qualcun altro, al limite arriva solo una lettera di ringraziamento per la disponibilità: è un atteggiamento completamente inaccettabile. Il feedback non viene dato per una serie di ragioni: principalmente perché il sistema pensa solo al lavoratore che viene assunto, non agli altri. Ma così gli esclusi pensano di essere stati discriminati, di essere vittime di un processo di selezione poco trasparente, e il più delle volte è così. È giusto che ci sia della discrezionalità in un'assunzione, ma questo non vuol dire arbitrarietà. Non esiste nel nostro paese una cultura della sensibilità del processo di selezione. Alcune imprese stanno cercando di fare qualcosa, concentrandosi sull'esperienza del candidato, sulla qualità percepita dal candidato, ovvero essere trasparenti, trattare le persone con rispetto, evidenziare che non si utilizzerano criteri discriminatori. Anche se queste organizzazioni non rinunciano a dati sensibili come l'origine e l'età del candidato che non dovrebbero figurare sui cv; in altri Paesi sono omesse, per evitare di compiere una selezione su criteri discriminatori. Ci sono cose ancora peggiori nella selezione interna.

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Quali sono?

In alcune aziende c'è un sistema di job posting: si segnala la posizione libera e si invitano le persone a candidarsi. Questo processo però non è trasparente. Io non so quante persone siano state valutate per la posizione in palio, ma questo è assurdo: così non conosco i criteri utilizzati per la valutazione. E' uno degli obiettivi delle politiche del personale far capire perché premio una persona e non un'altra, ed è anche un elemento di apprendimento per tutta l'organizzazione. In caso contrario, anche quando si prende una decisione assolutamente razionale, ci sarà qualcuno che dice che è stata presa per un motivo non appropriato.

Chi dovrebbe intervenire per correggere queste distorsioni? Cosa può fare il lavoratore per avere un atteggiamento più proattivo?

Il lavoratore di fatto niente; i sindacati invece potrebbero, ma è dagli anni '70 che sono usciti dalla gestione dei processi produttivi, occupandosi solo del mantenimento del posto di lavoro e della retribuzione, ma anche lì con scarsi risultati, con obbiettivi più che altro di omogeneizzazione per evitare eccessiva diversificazione tra le persone. In primo luogo però dovrebbero intervenire gli amministratori delegati che dovrebbero essere i primi a volere un processo di selezione trasparente, certo questo è difficile se loro sono stati scelti con i vecchi criteri. Un'altra figura che potrebbe intervenire è il direttore delle risorse umane. Però ci sono due fattori che lo limitano: in certe organizzazioni non ha più il potere che aveva in passato, inoltre la professionalità e lo statuto deontologico di certe figure sono incompleti. C'è di base un approccio tradizionalista, generato dall'esperienza ma anche dall'uso di strumenti legati a una visione tradizionale dei rapporti di lavoro.

Cosa deve fare il candidato in caso di domande discriminatorie? Dimostrare o meno di essere consapevole della scorrettezza di questo atteggiamento?

E' chiaro che da un punto di vista formale dovrebbe avere la garanzia di potersi opporre a questo comportamento ma non sempre questo è possibile, in molti casi risulta complicato, perché non credo che esistano casi di questo tipo a cui appellarsi, anche nella giurisprudenza. In molti casi, non potendo far valere il loro diritto, descrivono ad altri candidati i comportamenti dell'organizzazione e questo può creare reputazione molto negativa nei processi di selezione. E' quello che avviene ad esempio su Glassdoor, che ha questo tipo di obbiettivo. In virtù di ciò, molte organizzazioni cercano di correggersi, perché il tema della visibilità pone dei limiti significativi e le obbliga in sostanza ad assumersi responsabilità che in passato non si erano assunte; ovviamente non parliamo di organizzazioni che hanno processi piccoli di selezione, con pochi candidati e che non rischiano quindi di avere conseguenze negative in termini relazionali. Qualche azione di modernizzazione andrebbe fatta: non selezionare una persona per razza, preferenze sessuali, genere, come spesso ancora accade per le donne, è un comportamento inaccettabile e non coerente con quelle che fanno altre imprese nei contesti dove esiste una cultura del rispetto delle differenze diversa.

Lei ha insegnato in America: che panorama ha visto? Come si comportano le aziende, il feedback ad esempio è obbligatorio?

Non lo è ma è fortemente incoraggiato e tutte le grandi organizzazioni lo danno, perché è un elemento di costruzione della loro reputazione. Le imprese dimostrano ai candidati che davvero si preoccupano delle persone. Ho potuto appurare che c'è grandissimo rispetto e un evidente superamento del problema di genere, c'è un livello di considerazione e un'importanza sociale riconosciuta alle donne che nel nostro Paese ancora non c'è; il nostro è un Paese in cui anche una persona che è contraria alle discriminazione porta con sé un bagaglio, ereditato culturalmente, in cui la valorizzazione resta complicata.


C'è troppo pragmatismo in Italia sul tema della maternità? Chi fa selezione cura gli interessi dell'azienda con realismo eccessivo, per gli eventuali costi che la maternità comporta?

La maternità non è solo un costo, ma anche una dimensione di crescita per un'azienda, e di maturità della stessa risorsa che viene in essa inserita. Non sempre c'è un utilizzo corretto degli istituti per la maternità, ma la maternità non è forse un'esperienza che hanno le donne in qualsiasi paese del mondo? Anche nel contesto nordamericano ci si pone questo problema, in termini di redditività, ma se lo pongono anche con una logica di coinvolgimento, ma in un'ottica fiduciaria che sulla lunga restituisce di più. L'atteggiamento negativo è pusillanime e non ha un fondamento economico di lungo termine: l'immediato ha senso solo per lavori che non richiedano investimento specifico e acquisizione di competenze.


E' giusto che le aziende valutino i candidati anche per la loro vita digitale, e i comportamenti sulle piattaforme sociali?

Penso sia giusto acquisire informazioni sulle fonti pubbliche, è giusto che un'organizzazione possa capire se il candidato ha valori non condivisibili o non in linea con l'azienda. Non trovo legittimo invece indagare i contenuti che non sono pubblici. In ogni caso, anche le informazioni pubbliche non sono rivelatrici della struttura di personalità del candidato: io posso aver scritto delle cose che hanno senso in quel contesto, ma che lette al di fuori di questo possono sembrare diverse, come succede anche nelle intercettazioni. Insomma, ci vuole molta cautela.