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Stress Test: cosa sono e perchè averne (o no) paura?

Da qualche tempo la grande paura dei mercati non è più incarnata dallo spread, cioè il differenziale tra il Bund e il Btp, ormai parametro ampiamente falsato dalla presenza delle politiche delle banche centrali, ma dall’andamento del nodo (scorsoio?) che lega il settore del credito all’economia e cioè le banche. Sono loro, infatti il collo di bottiglia nel quale le operazioni di stimolo monetario vanno ad incagliarsi senza che queste riescano a raggiungere l’humus produttivo della base.

Alla luce di queste considerazioni gli stress test i cui risultati saranno pubblicati in serata (alle 22 italiane, per permettere ai mercati Usa di chiudere senza dover subire l'impatto della notizia) assumono un significato che va oltre la reale portata del dato in sè.

Cosa sono gli stress test?

Estremizzando il concetto e lasciando da parte i tecnicismi, si può dire che gli stress test altro non siano che delle simulazioni teoriche attraverso le quali si vuole testare la solidità di una banca simulando scenari economici estremi e l’impatto che questi avrebbero sui conti e la liquidità della banca. Ad essere coinvolti in queste “grandi manovre” sono 51 istituti; nelle precedenti prove, quelle del 2014, erano 124, ma questa volta si è voluto scegliere solo quelle con un attivo superiore ai 30 miliardi di euro. Le banche provengono da 15 paesi europei e di queste 5 sono italiane. Nello specifico si parla di Unicredit (EUREX: DE000A163206.EX - notizie) , Intesa Sanpaolo (Amsterdam: IO6.AS - notizie) , Banco Popolare (Amsterdam: PB8.AS - notizie) , Ubi Banca (Amsterdam: UF8.AS - notizie) , Banca Monte dei Paschi (Milano: BMPS.MI - notizie) di Siena, quella che, secondo gli analisti, desta più preoccupazioni, anche perchè al centro di una operazione di ristrutturazione dai contorni ancora in evoluzione. Un fattore che ha lasciato perplessi gli esperti è stata l’esclusione delle banche greche e portoghesi, i segmenti più fragili di tutta l’Europa.

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Da dove nasce questa situazione?

La crisi del 2008, quella che, per intenderci, scoppio al momento del fallimento della Banca Lehman Brothers, svelò un panorama fatto di leggi troppo permissive sulle banche da entrambe le sponde dell’oceano. a questo si aggiunga anche il fatto che nel Vecchio Continente, l’Europa Unita doveva combattere con l’eterogeneità dei conti pubblici di diverse nazioni (attualmente 19 per la zona euro e 28 per l’Unione) i cui deficit, debiti pubblici e dinamiche economiche andavano a cozzare le une con le altre e, a loro volta, con i parametri che la stessa Europa si era data, forse troppo superficialmente. Da qui lo squilibrio generale che gli interventi a gamba tesa delle banche centrali hanno tentato di risanare anche a rischio (rischio che poi si è concretizzato) di distruggere gli equilibri che hanno regolato i mercati nella storia. Le necessità primarie erano (e sono) la messa in sicurezza dei conti delle banche, ovvero un capitale solido, una copertura adeguata per eventuali scenari volatili ed emergenziali oltre ad accertare la presenza di un business di fondo sano. Tutte misure che, per essere adottate, necessitano di cospicui accantonamenti, i quali però, contrastano con quelli che sono tra i canali di guadagno delle banche e cioè i rendimenti sui prestiti e sui titoli di stato. Il costo del denaro, causa crisi, è stato costantemente tagliato (secondo alcune analisi di JP Morgan si parla di 672 tagli a livello globale dallo scoppio della crisi) per rendere più invitante l’indebitamento nella speranza di stimolare la circolazione del denaro e, in ultima istanza, l’economia reale.

La schizofrenia bancaria

Ma le banche, di fronte alla necessità di preservare i propri conti e davanti al rischio di non vedersi più ritornare il capitale prestato (sempre causa crisi) sono estremamente reticenti a elargire finanziamenti, ancora di più visto che le garanzie dei privati non sono soddisfacenti (il lavoro è per lo più precario, le aziende devono combattere contro la deflazione e i consumatori preferiscono non rischiare troppo con gli acquisti). A peggiorare la situazione, il fatto che i parametri usati dall’Eba (l’Autorità bancaria europea) per questi stress test ha adottato parametri che per molti versi sono discutibili e controproducenti per il settore del credito italiano. Infatti si tende a considerare “sicure” le banche particolarmente esposte verso la finanza e più fragili quelle commerciali. Ed è proprio l’Italia a venire danneggiata da questo approccio. Il motivo? Storicamente, a differenza delle altre aree, quella italiana è un’economia che vede la banca come perno cardine dei finanziamenti alle piccole e medie imprese, spina dorsale della nazione, ma anche per i privati.

I parametri Eba

Per alcuni, però, questi stress test non sarebbero decisivi. Infatti, l’Eba non si occuperà di evidenziare gli shortfall, cioè le carenze patrimoniali sui target fissati, come accaduto in passato, ma solo indicare le sue stime su quello che, da simulazione, sarà il coeffieciente patrimoniale Tier1 a fine 2018 considerando i dati dichiarati nel 2015. Tra le altre novità introdotte dall’Eba anche la volontà di non fissare una soglia minima di capitale da rispettare all’interno del panorama avverso immaginato, cosa che invece avvenne con gli esperimenti passati, quando la soglia era del 5,5%. Ufficialmente la spiegazione starebbe nel fatto che la prova vuole solo dare indicazioni per la solidità e giudizi o indicazioni per la soluzione delle criticità di massima. Ultima nota: i parametri di rischio. In quest’occasione le fasce saranno 3: conduct risk (il pericolo di costi e aggravi per la banca derivanti da comportamenti fraudolenti), rischio valutario (l’impatto della volatilità monetaria sui conti della banca e sulle riserve in valuta estera) e, per ultimo, il rischio tassi d’interesse (l’andamento della redditività dell’istituto visto il costante calo dei rendimenti).

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