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Telegraph: Draghi non ha più armi. Qe (ed Europa?) alla fine?

Le ultime parole di Mario Draghi, numero uno della Bce (Toronto: BCE.TO - notizie) , non sono piaciute ai mercati: le tante aspettative degli operatori questa volta erano state sostituite da attese più “normali” rappresentate da piccoli provvedimenti che però sono rimasti delusi.

I numeri della disfatta

A confermarlo è anche un editoriale del Telegraph a firma di Ambrose Evans-Pritchard che sottolinea come l’azione della Bce non sia stata in grado di sfruttare la situazione internazionale particolarmente favorevole data da un petrolio in caduta libera (e l’Europa è un importatore di greggio) e un euro debole (e l’Europa è un continente fortemente esportatore), un mix che, invece, avrebbe dovuto mettere il turbo all’economia del Vecchio Continente. Cosa significa questo? Semplicemente che le azioni di Draghi sono state utili per permettere agli stati di abbassare la febbre sui titoli di stato e di calmare quel rally dello spread che ormai 5 anni orsono si era visto sui mercati. Ovvero prendere tempo utile.

E i numeri parlano chiaro: l’inflazione “core” non è riuscita ad andare oltre l’1% da più di tre anni, il che, considerando il trend che si sta creando, a sua volta anch’esso negativo, inizia a preoccupare anche gli esperti della stessa Bce. Guardando ancora i dati raccolti da Marchel Alexandrovich di Jefferies, nel paniere di riferimento, la percentuale di beni e servizi con inflazione al di sotto dell’1% è pari al 58% che diventa 67% se si guarda al panorama italiano, ovvero una cifra superiore rispetto al periodo in cui il QE venne adottato, cosa che rende l’Europa esposta ad ogni sorta di shock esterno. Un paradosso che diventa ancora peggiore si si guarda all’andamento della moneta unica: debole quando è partito il QE, adesso ha registrato un aumento del 7%, aumento costante fino all’arrivo dei tassi negativi per i depositi.

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La sensazione di fondo

La sensazione più distinta è che ormai, dopo i sempre più numerosi report che evidenziano dati macro tiepidi e spesso contraddittori a distanza di poco tempo gli uni dagli altri, le politiche delle banche centrali abbiano esaurito le rispettive forze. Da una parte la Fed sta iniziando a concretizzare le sempre più disparate voci che mirano al rialzo dei tassi di interesse, dall’altro l’Europa con la deflazione ormai sempre più radicata, sta comprendendo che le varie implementazioni del QE non hanno dato i risultati sperati perchè il problema è a monte.

Il vero colpevole

In realtà sarebbero state necessarie riforme strutturali non solo a livello nazionale per ogni singolo rappresentante Ue ma anche dell’intera idea di Unione. Infatti l’editoriale di Evans-Pritchard considera proprio questo il punto centrale del problema: la politica fiscale espansiva necessaria è di fatto resa impossibile proprio dalle regole dell’Unione che vietano sbilanciamento proprio ai paesi della periferia, che più ne avrebbero bisogno, ma anche da quelli core, in primis la Germania, che si rifiuta di farla e di concederla. Questo, in estrema sintesi, il blocco che ferma ogni possibilità di crescita anche futura. Basti vedere non solo lo 0,3% registrato a livello generale per l’Unione ma anche allo 0% da un trimestre all’altro visto in Italia.

La situazione di fondo per gli Usa, in teoria, sarebbe diversa: nazione unica, a suo modo molto più unita dell’Europa, non ha dovuto mettere d’accordo capi di stato e nazioni storicamente, socialmente, culturalmente e persino geograficamente (quindi con produzioni economiche diverse) a volte antitetiche.

L'Europa non ha raggiunto i risultati

I mille miliardi di euro di acquisti, traguardo segnato qualche tempo fa dalla Bce, non è riuscito ad avere una controparte di risultati utili anche sul futuro vista l’ennesima revisione al ribasso delle stime di crescita per l’Eurozona così come anche sul target dell’inflazione che non arriverà al 2% nemmeno per i prossimi 10 anni ed è particolarmente indicativo il fatto che un allungamento del QE e dei suoi 80 miliardi di euro al mese fino al marzo del 2017, non sia stato nemmeno preso in considerazione nell’ultima riunione del board. Stando a quanto dichiarato, infatti, l’Europa avrebbe dovuto raggiungere i primi risultati già l’anno scorso. L’ammissione, in altre parole, della fase discendente del QE europeo, del fallimento del concetto stesso di Quantitative Easing (e il Giappone potrebbe intervenire sull’argomento) e, forse, anche del progetto dell’Europa, un segno che aveva dato allarmi da tempo, partendo proprio dalla Grecia.

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