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Unconscious Bias, perché la lotta ai pregiudizi sprigiona l’innovazione (di R. Bonfitto)

Adding a little laughter to the office (Photo: PeopleImages via Getty Images)
Adding a little laughter to the office (Photo: PeopleImages via Getty Images)

(di Raffaele Bonfitto, Office Director Roma | Professional Recruitment di Spring Professional e Badenoch + Clark)

Quando i tecnici di YouTube nel 2014 lanciarono sul mercato l’app che permetteva agli utenti iOS di caricare video direttamente dallo smartphone, si resero conto che alcuni contenuti, in una percentuale tra il 5 e il 10%, apparivano pubblicati sottosopra, nel verso sbagliato. Indagando più a fondo il problema, compresero che non erano gli utenti a fare un uso errato dell’app, ma che il bug era da ricercare nel design: l’applicazione, infatti, era stata pensata solo per destrimano e non per i mancini che, usando il dispositivo con la mano sinistra, lo facevano ruotare di 180 gradi. Non a caso, a caricare i video nel senso opposto erano proprio i mancini.

L’aneddoto che ho ripreso dal blog ufficiale di Google spiega l’influenza negativa che i pregiudizi e gli stereotipi esercitano sulle attività di un’azienda, inficiando direttamente la capacità di questa di costruire e lanciare sul mercato prodotti innovativi realmente efficaci. In inglese, questi pregiudizi si chiamano “unconscious bias” e sono determinati proprio dalla mancanza di diversità (fisiche, di genere, etnia, età ecc.) all’interno delle organizzazioni. Se Google avesse avuto nel suo team di sviluppo dei mancini, probabilmente avrebbe ravvisato prima il problema e corretto l’errore in anticipo. Quanto avrebbe risparmiato, così facendo, in termini di costi e di tempo? Che la diversità di composizione di un team sia strettamente legata alla sua propensione a innovare lo dimostrano diversi studi; la letteratura è davvero vasta, come dimostra bene un articolo di The Wall Street Journal dal titolo “The Business Case for more Diversity” , ricco di spunti per gli appassionati del tema. L’inchiesta parte da un sondaggio sul tema dell’inclusione realizzato dal giornale americano, che per l’occasione mette sotto la propria lente di ingrandimento le Standard & Poor 500: dallo studio emerge che le aziende composte dai team più eterogenei riescono a creare prodotti migliori, a essere più innovative sul mercato e raggiungere profitti maggiori, una tesi suffragata dai dati e dalle opinioni del management di queste aziende (sul rapporto tra diversità in azienda e profitti, segnalo un altro studio molto interessante di McKinsey).

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Ma perché le aziende che sanno andare oltre gli stereotipi e i pregiudizi sono più predisposte all’’innovazione? Dalla mia esperienza, ho imparato che i team più eterogenei nella loro composizione godono di tre vantaggi competitivi rispetto agli altri: 1) Rappresentano meglio i consumatori che poi andranno in concreto a utilizzare i prodotti o i servizi proposti; 2) Riescono a prendere decisioni migliori riducendo gli errori legati proprio a pregiudizi di sorta; 3) Portano un approccio più variegato e innovativo al problem solving.

Non è un caso che le aziende più innovative al mondo, come la già citata YouTube e altre, stiano lavorando già da anni in modo strategico per ridurre pregiudizi e stereotipi nel management e tra i collaboratori. Queste procedure prendono il nome di UB training, dove l’acronimo UB sta proprio per unconscious bias. Gli UB training hanno lo scopo di aumentare la consapevolezza sulle scorciatoie mentali che prendiamo, spesso sulla base di pregiudizi. Queste ci conducono a giudizi e conclusioni affrettate: per questo, aumentare la consapevolezza serve a ridurre il rischio di agire secondo stereotipi sul lavoro, dalla fase di assunzione, fino alle procedure per promozioni e avanzamenti di carriera.

Consapevolezza è una parola chiave. I pregiudizi sono spesso inconsci ed è per questo credo che un training convenzionale abbia scarse possibilità di successo; serve invece lavorare proprio sulla consapevolezza: solo dopo aver riconosciuto i propri pregiudizi è possibile attuare delle strategie per imparare a gestirli, cambiare il proprio comportamento e analizzare successivamente i progressi.

Microsoft, per esempio, ha realizzato alcuni video che simulano situazioni che accadono non di rado nelle aziende; in uno di questi si vede una donna che viene interrotta ripetutamente da colleghi uomini mentre sta provando ad affermare il proprio punto di vista durante un meeting. In questo caso il video è lo strumento che attiva il meccanismo della consapevolezza. Il training prosegue poi con incontri di gruppo nei quali è prevista una prima fase di discussione sulla situazione oggetto dell’analisi e poi alcuni test per verificare i miglioramenti dei partecipanti.

Questo approccio, che segue il metodo di insegnamento situazionale, viene ripreso anche da altri brand all’avanguardia nelle strategie di UB training, come Starbucks. La celebre catena di caffetterie americana ha rivisto le sue politiche dopo un episodio che ha coinvolto, loro malgrado, due imprenditori afroamericani, i quali, nel 2018, decidono di condurre un meeting all’interno di uno dei punti vendita; mentre sono al tavolo, uno degli store manager della compagnia si avvicina per le ordinazioni, ma i due gli spiegano che stanno aspettando un collega. Indispettito, lo store manager chiede ai due di ordinare oppure di lasciare la caffetteria, minacciando di chiamare le forze dell’ordine. L’avvenimento è stato poi utilizzato dall’azienda in alcuni tutorial per dimostrare concretamente come i pregiudizi possono agire negativamente nei punti vendita, complicando la vita dell’azienda e dei clienti: Starbucks ha subito un danno d’immagine notevole in America per il comportamento sbagliato del suo manager.

Ogni strategia, tuttavia, assume poco senso senza strumenti che sappiano misurare i progressi nel tempo: d’altronde, come si può migliorare quello che non si riesce a tracciare? Per questo, le aziende che adottano un approccio più serio al problema del superamento dei pregiudizi misurano i progressi delle loro attività, con sondaggi rivolti al management, specialmente in un ambito molto sensibile come l’HR, e ai collaboratori, e pubblicano poi report annuali che dimostrano, nei fatti, i cambiamenti nella composizione demografica della propria azienda

Gradualità è un’altra parola chiave nella lotta ai pregiudizi in azienda e nella creazione di un ambiente inclusivo in grado di accogliere la diversità e farne tesoro. Un anno di interventi, anche se impegnativi, non può trasformare la cultura di un’impresa, come succede, d’altronde, per ogni altro tipo di problema aziendale: se le vendite non crescono, come può il management aspettarsi di risolvere la situazione dall’oggi al domani? Le sfide per l’inclusione richiedono allora una visione strategica e una programmazione negli anni. Arricchire il percorso di prove e di metriche è il modo migliore per aiutare le aziende a fare progressi lungo il tragitto.

La lotta ai pregiudizi è un viaggio lungo, che, tuttavia, porterà a risultati che giustificheranno gli sforzi effettuati per arrivare alla meta: background ed esperienze differenti, infatti, permettono di arricchire l’azienda di punti di vista diversi e di favorire la nascita di nuove idee.

Al contrario, le organizzazioni che soffrono di una cultura troppo omogenea rischiano di apparire eccessivamente rigide e poco accoglienti nei confronti soprattutto delle nuove generazioni. E questo, soprattutto in un’epoca in cui le aziende fanno a gara per attirare i migliori talenti sul mercato, è un rischio che un’organizzazione non può permettersi di correre.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.