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WSJ: e se Trump avesse ragione sulla Fed?

Di sicuro Donald Trump ha avuto il pregio di rendere movimentate le elezioni presidenziali anche se per farlo si è attirato l'ira della maggior parte delle testate internazionali, non ultimo il Financial Times che dalle sue colonne paragonava l'eventuale elezione di Trump alla Casa Bianca come quella di Hitler nella Germania post Prima Guerra Mondiale. Insomma uno di quegli avvenimenti che cambiano, a in peggio, la storia.

L'aiuto insperato

A spezzare una lancia, però, in favore dell'eccentrico miliardario sarebbe il WSJ, anche lui non tenero con il repubblicano. Questa volta, però, la testata sembra volersi schierare dalla sua parte, se non proprio su tutto il programma politico, per lo meno sulla questione delle critiche contro la Fed. Trump, infatti, si è reso spesso protagonista di accuse dirette a Janet Yellen governatore della Banca Centrale Statunitense la quale, a suo dire, starebbe tenendo volontariamente i tassi bassi oltre ogni limite di tempo, non per questioni finanziarie o per contingenze economiche, bensì per facilitare la strada a Barack Obama e ai democratici in generale favorendo però così, lo scoppio di una pericolosissima bolla la cui forza sarà evidente proprio nel momento in cui non sarà più possibile fermarne l'esplosione.

I numeri contro la Yellen

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E secondo le cifre snocciolate dal quotidiano finanziario la teoria non sarebbe uno dei tanti argomenti a sfondo complottistico che hanno caratterizzato la sua campagna elettorale finora. Numeri alla mano, appunto, il 60% dei guadagni di borsa sono arrivati nei 70 giorni in cui la Fed ha reso pubbliche le sue strategie e le decisioni in fatto di tassi, acquisti di bond e previsioni per l'economia Usa. Non solo, ma decisivo è anche il gap tra le parti: 0,01% di media di guadagno negli altri giorni contro lo 0,5% dei 70 giorni di pubblicazione. Un trend che in passato non era caratterizzato da uno squilibrio tale, discrepanza che, invece, ha iniziato a delinearsi negli ultimi 40 anni circa ma che solo dopo il varo delle diverse misure di stimolo è arrivato a una polarizzazione estrema verso gli appuntamenti con la Fed. In realtà, a prescindere dalle statistiche, anche l'osservazione empirica evidenzia come l'interdipendenza dei mercati e delle banche centrali, Fed su tutte ma anche la Bce (Toronto: BCE.TO - notizie) non scherza, stia diventando sempre più evidente. Basti pensare alle dichiarazioni spesso contrastanti, soprattutto ultimamente, dei rappresentanti della banca centrale Usa i quali non solo hanno regalato volatilità a mercati che ne avrebbero fatto volentieri a meno ma hanno anche messo in dubbio la capacità di Janet Yellen e con lei di tutto il board, di gestire una manovra assolutamente delicata.

Gli esempi

Un esempio arriva proprio dal numero uno della Fed che alla fine dell'anno scorso aveva chiaramente fatto intendere che nel corso del 2016 ci sarebbero stati diversi rialzi dei tassi grazie alla ripresa dell'economia. Purtroppo dall'inizio dell'anno, complice la tempesta in arrivo dalla Cina ma ancora di più quella sui bancari europei, la volontà di stringere sul costo del denaro è venuta meno, ogni volta con una motivazione diversa. Fino al caso emblematico, l'ultimo in ordine di tempo: alle dichiarazioni questa volta della stessa Janet Yellen che parlava chiaramente all'inizio del mese di settembre di un rialzo dei tassi di interesse alla prima occasione utile, i mercati hanno risposto con un calo. E la Fed, per evitare il peggio, è stata costretta a confermare un'altra volta lo status quo. Il sospetto che un crollo della Borsa o lo scoppio di una bolla di dimensioni colossali proprio alla vigilia delle elezioni presidenziali, risulti scomodo molto più ai democratici che non a Trump, accusatore della Yellen e della sua politica, è più che lecito.

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