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Anche in Cina arriva l'Imu

CHENGDU, CHINA - MARCH 29 2021: A view of apartment buildings with leafy balconies in Chengdu city in southwest China's Sichuan province Monday, March 29, 2021. All balconies of the eight 30-story towers in the residential project are planted with about 20 kinds of vegetation by the developer in 2018. (Photo credit should read Feature China/Barcroft Media via Getty Images) (Photo: Barcroft Media via Barcroft Media via Getty Images)

Pechino ha deciso di saltare un fossato storico, dando il via a un periodo di sperimentazione della tassa sulle proprietà immobiliare. La svolta fiscale – che non sembri esagerato definire appunto storica, per il Dragone - è stata voluta fortemente dallo stesso Xi Jinping, e segna un nuovo, fondamentale, step nel percorso verso un’economia più “collettivista” (per non dire comunista…) impresso dal presidente cinese negli ultimi tempi. Xi aveva infatti già incaricato privatamente i pianificatori economici di andare avanti con lo sviluppo di una tassa sulla proprietà, come prossimo passo delle sue più ampie riforme verso la “prosperità comune”, che hanno lo scopo di ridistribuire la ricchezza e “regolare i redditi eccessivamente alti”. Nulla sfugge allo zelo di Xi e dei suoi – né i patrimoni dei supermiliardari, né le rendite dei cittadini proprietari di case – per pilotare la Cina verso una economia che pare improntata a una nuova e spiazzante miscela fatta di nuovo socialismo e forte statalismo, con un ferreo controllo centralizzato da parte del Partito Comunista del mercato e della ricchezza privata.

Gli sforzi per rilanciare l’idea di un Imu cinese avevano ripreso vigore a maggio, di fronte all’aumento esponenziale dei prezzi delle case, nonostante il governo avesse messo in opera una serie di misure amministrative in tutta la nazione per frenare la speculazione, ma l’idea ha cominciato ad assumere un carattere d’urgenza lo scorso agosto, quando Xi ha definito per la prima volta il concetto di “prosperità comune” durante una riunione dei vertici economici del Partito: cambiamenti favorevoli nelle tasse e nei pagamenti della sicurezza sociale per i redditi medi, politiche che aumentano i guadagni per i gruppi a basso reddito e repressione di pratiche e scappatoie che possono dar luogo a “redditi illeciti”. Una decisione, quella voluta oggi dal potente presidente della seconda potenza economica globale (ormai trionfalmente in corsa per la rielezione per un – inedito – terzo mandato a breve) che lo mette in aperta rotta di collisione con interessi costituiti profondamente radicati in un’economia, come quella cinese, alimentata per decenni proprio dallo sviluppo della gigantesca “bolla” immobiliare. E si tratta di una decisione profondamente legata anche alle recenti vicende del gigantesco default di Evergrande, perché sembra voler dire con chiarezza che, in Cina, la “pacchia” dell’immobiliare è finita, probabilmente per sempre.

Il Consiglio di stato ieri ha annunciato che amplierà gli schemi pilota per tassare gli immobili residenziali e commerciali nelle città, facendo seguito a un precedente annuncio del Congresso nazionale del popolo il quale, sabato scorso, aveva anticipato la decisione. Le località dove la nuova normativa fiscale verrà testata non sono state rese note, ma si sa per certo che le famiglie rurali saranno escluse dal provvedimento. Secondo l’agenzia di stampa statale Xinuha, i dettagli della manovra verranno resi noti nei prossimi mesi, comprese le regioni coperte da questa iniziativa e come verrà fissata l’aliquota fiscale. Una proposta iniziale per testare la nuova tassa in circa 30 città cinesi è stata ridimensionata a circa 10 località, mentre una nuova legge definitiva per imporla in tutto il paese non verrà probabilmente finalizzata fino al 2025 circa, l’ultimo anno dell’attuale piano di sviluppo quinquennale.

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La riforma rischia di essere molto più spinosa da attuare di quanto si possa immaginare, in quanto andrà a colpire un numero enorme di persone e di interessi. Secondo i dati ufficiali, oltre il 90% delle famiglie cinesi urbane possiede la propria casa e circa il 10% delle famiglie possiede almeno tre proprietà, mentre la proprietà immobiliare e le industrie connesse rappresentano quasi un terzo della produzione economica del paese. Una tassa sulla proprietà potrebbe alterare dunque radicalmente il modello economico cinese, rimodellando i flussi di entrate che fino ad oggi erano stati garantiti al governo dalla vendita dei terreni e dalle tasse, scoraggiando la speculazione immobiliare. E un fattore importante di cui tenere conto è proprio che il settore immobiliare in Cina è strettamente legato alle finanze dei governi locali, in crisi dalla fine degli anni ’90. La vendita dei terreni (in realtà è più corretto dire gli affitti a lungo termine, visto che la terra in Cina resta sempre di proprietà dello Stato) è diventata la principale forma di finanziamento per la maggior parte dei governi locali. E questo sebbene Pechino abbia cercato di raffreddare il mercato limitando queste attività e ridistribuendo le tasse, con un successo però, fino ad oggi, molto limitato. Questa situazione ha contribuito alla diffusa speculazione immobiliare e ha spinto al rialzo i prezzi dei terreni e delle case in un ciclo che molti esperti ritengono ormai insostenibile. I governi locali, che traggono circa un terzo delle loro entrate dalla vendita di terreni a promotori immobiliari, temono che una tassa sulla proprietà possa causare un calo della domanda di terreni. In realtà, la nuova “imu” cinese, prevista come prelievo annuale sulla proprietà della casa, continuerebbe a fornire in una certa misura “ossigeno” alle sempre fameliche casse delle amministrazioni regionali, perché sarebbe fissata e riscossa proprio dai governi locali, in un modo non molto diverso da quanto accade da noi in Italia. Ma la quota delle nuove entrate fiscali difficilmente potrebbero equiparare gli attuali, enormi flussi di liquidità generati dalla vendita/affitto dei terreni, che lo scorso anno ammontavano per le amministrazioni locali a circa 1,3 trilioni di dollari.

I cinesi possono possedere una casa dal 1998, ma l’idea di un’imposta sui proprietari di case è emersa per la prima volta in Cina nel 2003, senza mai riuscire a decollare a causa dei timori diffusi nella società cinese, per cui che avrebbe danneggiato la domanda di proprietà, i prezzi delle case, la ricchezza delle famiglie e i futuri progetti immobiliari. Il governo ha cercato per anni di affrontare il problema andando dietro agli speculatori, ma adesso la svolta epocale intrapresa potrebbe cambiare definitivamente la situazione, e proprio per questo l’annuncio ha sollevato forti preoccupazioni, soprattutto tra la gente comune, i cui risparmi sono intrappolati nel valore della proprietà che possiedono. In molti temono che tassare il bene “popolare” per eccellenza in Cina, la casa, sia troppo rischioso e potrebbe causare un crollo non soltanto del mercato immobiliare, ma dell’intera economia. Molti specialisti fiscali ed anche autorevoli economisti cinesi, invece, ritengono che il nuovo programma fiscale sulla proprietà aiuterà proprio ad allontanare i governi locali dalla loro dipendenza cronica dalla vendita e dall’affitto di terreni pubblici agli sviluppatori.

La classe media urbana cinese, uno dei gruppi sociali più importanti per il sostegno del Partito Comunista Cinese, ha investito molto nel mattone. Nell’ambito delle riforme abitative del governo negli anni ’90, ai residenti urbani sono stati assegnati appartamenti che in precedenza appartenevano alle loro unità di lavoro, che spesso sono stati la base di partenza della loro nuova ricchezza, rendendoli entusiasti speculatori immobiliari. E questo, in primis proprio perché la Cina non ha mai avuto – fino ad oggi - quasi nessuna tassa sulla proprietà immobiliare, il che ha reso la casa una scelta di investimento particolarmente allettante per tutti. Si può tranquillamente dire, del resto, che in Cina la maggior parte delle aziende sono in una certa misura attività immobiliari, che investono in proprietà su larga scala. L’ex Hainan Airlines, ad esempio, si è trasformata nel gigante HNA Group prima di dichiarare bancarotta nel 2017 e immettere sul mercato immobili per un valore di 11 miliardi di dollari. Ma ormai da tempo l’offerta immobiliare ha superato la domanda in molte città cinesi. Alcune delle cosiddette città fantasma costruite negli ultimi 20 anni per accogliere la forte spinta all’urbanizzazione impressa dal governo stanno iniziando a prosperare, ma molte altre restano deserte, fantasmi di una crescita che non si è rivelata “impetuosa e inarrestabile”, come avrebbe voluto la retorica nazionalista.

Tra i dettagli della nuova normativa fiscale sulla casa, l’idea di testare gradualmente il piano fiscale nelle grandi città, tra cui Shanghai e l’immensa municipalità di Chongqing nella Cina centrale, che già dal 2011 applicano una tassa annuale sulle seconde case o sulle unità immobiliari ad alto prezzo. Dovrebbero fare da test anche l’hub tecnologico/industriale di Shenzhen, metropoli al confine con Hong Kong, e la provincia dell’isola meridionale di Hainan, entrambe designate da Xi come terreno di prova per la costruzione di una “economia di mercato socialista”. Anche la città di Hangzhou, nella ricca provincia costiera di Zhejiang, dovrebbe aderire al programma pilota fiscale. Si tratta di una provincia scelta da tempo per la sperimentazione delle politiche volute da Xi per ridurre la disuguaglianza e nota anche per essere sede dell’impero commerciale di Jack Ma, l’assediato imprenditore miliardario proprietario di Alibaba, già oggetto di forti “attenzioni” da parte del governo e dell’antitrust cinesi. La sua capitale, Hangzhou appunto, è attualmente ottava città più ricca della Cina, con una produzione economica che ha raggiunto 1,61 trilioni di yuan (252 miliardi di dollari) lo scorso anno, pari a circa il 70% del prodotto interno lordo di Hong Kong.

Intanto, in attesa dell’entrata in vigore di questa già odiatissima “imu”, pare che i cinesi si stiano già organizzando con stratagemmi dal sapore molto “italiano” per cercare di aggirare anche questo futuro balzello. Così come, a quanto pare, accade già da tempo con il prelievo fiscale in vigore in caso di compravendita di un immobile – pari al 20% del plusvalore - per evadere il quale sempre più coppie cinesi decidono di …divorziare. È esente dall’imposta solo chi vende la prima casa, e solo se la possiede da almeno 5 anni, ma un escamotage legale permette alle coppie con due proprietà che divorziano di intestare entrambe le case a nome di una sola persona e venderle poi senza pagare l’odioso balzello, seppure a certe condizioni. Una volta terminata la transazione, poi, la coppia può tranquillamente sposarsi di nuovo. Fatta la legge, insomma, trovato l’inganno. Anche in Cina.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.