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Calamità naturali, un dramma per l'economia italiana

Pronte ad esplodere, ma non si sa quando. Bombe a orologeria innescate per creare danni all’economia italiana. Le calamità naturali come i terremoti, certamente, non si possono prevenire. Ma quando stravolgono il nostro Paese, l’ultimo quello in Emilia-Romagna dello scorso maggio, lo Stato è in ginocchio e fatica a trovare fondi utili per ricostruire e per assistere la popolazione colpita. Spostando l’attenzione sulla finanza, invece, ultimamente a ricoprire il ruolo della bomba pronta a brillare ci hanno pensato i derivati.

Lo Stato italiano ha dovuto pagare 2,6 miliardi di euro alla banca d’affari statunitense Morgan Stanley per coprire la perdita su un derivato di cui in pochi sapevano. E la notizia, nelle scorse settimane, ha scatenato il prevedibile dibattito. Fior fiore di analisi, sui principali giornali economici, circa l’utilità di scommettere sui derivati. Secondo Bloomberg, per esempio, la decisione di risolvere i contratti non è stata del Tesoro, ma di Morgan Stanley, in virtù di una clausola (Termination clause) che dà diritto a chiudere una posizione se la perdita della controparte, nello specifico lo Stato italiano, eccede le garanzie e i margini stabiliti. In buona sostanza, senza questa postilla la perdita dell’Italia non sarebbe venuta alla luce. Per dare un’idea sull’effettiva diffusione dei prodotti derivati, è sufficiente il valore complessivo stimato nel 2011: 647mila miliardi di dollari. Una cifra enorme, pari al valore delle borse internazionali moltiplicato per quattordici, oppure un totale di nove volte superiore al prodotto interno lordo del mondo. Quello che fa dei derivati una potenziale minaccia pronta ad abbattersi come un boomerang sull’economia di quegli Stati che ne hanno messo nel portafoglio una buona quantità, come l’Italia, è la lacunosa e inefficiente regolamentazione.

Di derivati, però, ne esistono davvero molti e il loro valore può dipendere da valute, titoli azionari, indici, merci e tassi di interesse. Insomma, chi più ne ha, più ne metta. Gli utilizzi principali degli strumenti derivati sono l’arbitraggio (ossia l’acquisto di un prodotto in un mercato e la sua vendita in un altro), la speculazione e la strategia di copertura di un rischio finanziario, la cosiddetta hedging. Nuovi tipi di derivati nascono in continuazione: future, swap, strutturati e via dicendo. C’è chi è convinto che le responsabilità di questi prodotti, nell’attuale crisi economica, sia evidente. Ma l’altra scuola di pensiero, tra gli addetti ai lavori, non considera affatto i derivati come il male assoluto, ma semplicemente ne sconsiglia l’acquisto ai Paesi sovrani. Dunque, questi prodotti diventano pericolosi quando sono utilizzati in maniera scorretta, considerato che il pericolo della speculazione è sempre grande. Per fare un po’ di ordine, in questo scenario, il Tesoro potrebbe comunicare regolarmente anche il rischio controparte e la sua concentrazione. Nel caso del contratto con Morgan Stanley, lo Stato ha perso la sua scommessa, ma nell’eventualità opposta, la banca d’affari avrebbe avuto il denaro sufficiente per pagare? In quest’ottica, il rischio della controparte diventa enorme. Un uso più moderato dei derivati è sicuramente auspicabile, ma diverrebbe utile a ridurre il grande rischio solo nel caso in cui si unisse la trasparenza.

Nessuna previsione, o quasi, quando si tratta di calamità naturali. Il sisma che ha colpito l’Emilia-Romagna e la provincia di Mantova, con le due grandi scosse dello scorso maggio, ha lasciato un bilancio terribile: 26 morti e circa quindicimila sfollati. Sarebbero oltre due miliardi di euro i danni a case, lavoro e beni artistici. L’area più colpita, quella tra Mirandola, San Felice, Medolla, Cavezzo e Finale, è anche quella dove si produce il 10% del Pil agricolo italiano. La popolazione chiede l’intervento dello Stato che, puntualmente, deve far saltare fuori i soldi. La soluzione più semplice è aumentare le accise della benzina con il lunghissimo elenco di balzelli risalenti, tra gli altri, addirittura alla guerra in Abissinia del 1935, al disastro del Vajont nel 1963, terremoto del Belice nel 1968, a quello in Friuli nel ’76 o a quello dell’Irpinia nel 1980.

E lo scorso 17 maggio, nel il decreto legge n. 59, intitolato “Disposizioni urgenti per il riordino della Protezione Civile”, si legge che “al fine di consentire l'avvio di un regime assicurativo per la copertura dei rischi derivanti da calamità naturali sui fabbricati a qualunque uso destinati, possono essere estese tutte le polizze assicurative contro qualsiasi tipo di fabbricato appartenente a privati”. In altre parole, lo Stato non pagherà più per i danni creati dalle scosse della terra, ma dovranno pensarci assicurazioni private. Il decreto, comunque, non ha effetto immediato, ma prevede un periodo transitorio sperimentale. Ma l’elenco dei problemi che gli eventi naturali possono scatenare sull’economia del Bel Paese non si ferma qui. Può bastare, infatti, una nevicata abbondante in pieno inverno a mandare in tilt il sistema di trasporti, sia su gomma – con strade impercorribili perché ghiacciate e non salate –, sia su rotaie, con la circolazione dei treni paralizzata.

E durante l’estate? Il rischio blackout per l’eccessivo uso dei condizionatori è dietro l’angolo. Nel giugno del 2004, a Milano, furono spesi 8 milioni di euro in una sola settimana per avere case e uffici più freschi. L’azienda energetica aveva minacciato “c’è il rischio di rimanere senza corrente se non parte il piano dei distacchi programmato”. Bombe ad orologeria pronte ad esplodere. In un periodo di crisi, però, sarebbe almeno il caso di evitare le conseguenze di quelle largamente prevedibili.