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Europa: le lobby a Bruxelles lavorano nell'ombra

La sede della Commissione europea a Bruxelles, lo scorso 13 febbraio. REUTERS/Francois Lenoir

La maggior parte delle attività di lobby, a Bruxelles, viene svolta nell’ombra. La mancanza di trasparenza è all’ordine del giorno, nonostante dal 2011 esista proprio un Registro per la trasparenza, istituito dalla Commissione e dal Parlamento europeo. Tutte le lobby si sono iscritte? Macché, la presenza sul librone dei gruppi di pressione non è neanche obbligatoria. Facile immaginare come qualcuno abbia più interesse ad agire senza comparire in nessun elenco, arrivando a pagare lobbisti senior fino a mille euro all’ora.

Il 30 per cento delle organizzazioni presenti a Bruxelles non è iscritto nel Registro della trasparenza. A marzo 2014 solo 6.370 tra organizzazioni, aziende, sindacati e think tank hanno deciso di comparire negli elenchi ufficiali. “All’appello manca almeno il 30 per cento del totale e quelli iscritti spesso cercano solo fondi”, ha precisato in più occasioni Alliance for lobbying and ethics regulation (Alter Eu), l’associazione che riunisce oltre 200 organizzazioni della società civile e dei sindacati e che si batte da anni per ottenere un regolamento più severo riguardo le lobby. Basti prendere ad esempio gli Stati Uniti: dagli anni ’90 l’iscrizione al registro delle lobby è obbligatoria. Lasciamo perdere l’Italia dove una legge che regolamenti queste delicate negoziazioni è ancora paludata nel vaglio del Parlamento.

“La Commissione europea dovrebbe modificare l’attuale articolo 352 del Trattato sul funzionamento dell’Ue”, si legge in una lettera inviata al presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, da Rainer Wieland, eurodeputato tedesco dell’Unione cristiano-democratica (Cdu), che si occupa del gruppo di lavoro di revisione. “E se questo non fosse possibile, il Parlamento dovrebbe adoperarsi affinché sia creato un nuovo registro sulle attuali basi legali”. Per il momento si tratta solo di richieste formali, buoni intenti ma di concreto quasi nulla. “Le lobby attive in Europa non compaiono”, denuncia Oliver Hoedeman, fondatore dell’associazione no profit Corporate Europe observatory, che da 20 anni osserva e combatte la mancanza di trasparenza delle lobby che ruotano attorno all’istituzioni Ue. “Oltre 500 aziende hanno uffici di rappresentanza a Bruxelles ma almeno 100 di loro non sono registrate”. Da nessuna parte. Come Goldman Sachs che nel “2012 ha incontrato per ben tre volte il commissario degli Affari economici, Olli Rehn”, continua Hoedman ma “non abbiamo avuto altre informazioni su quell’incontro”.

Una sorta di zona franca, in cui i colossi delle multinazionali possono muoversi incontrastati con i loro gruppi di pressione. Ma quanto spendono? I conti li ha fatti Lettera43: anche più di mille euro all’ora. “La media è di 20mila euro al mese – spiega Hoedeman – anche se ci sono grandi industrie che spendono molto di più, fino a mille euro all’ora per le prestazioni professionali di lobbisti senior”. La stranezza, tanto per usare un eufemismo, è che dalle cifre riportate nel registro, i costi dichiarati per l’attività diretta di rappresentanza sono piuttosto contenuti. La European chemical industry council (l’Associazione delle industrie della chimica, Cefic), per esempio, in principio dichiarava di investire meno di 50mila euro all’anno, “ma il loro bilancio era di circa 45 milioni di euro”, come rileva la Corporate Europe observatory che ha più volte segnalato l’anomalia alla Commissione. Nel 2009 la Cefic fu momentaneamente sospesa dal registro, tornò ad essere iscritta dopo aver corretto la voce di spesa per il lobbying, dichiarando 5,9 milioni di euro. Dai 50mila euro iniziali, un bel balzo in avanti. “Comunque è una cifra ancora molto ridotta rispetto alla loro forza”, ci tiene a precisare sempre Hoedman che rincara: “Cefic è uno dei giocatori chiave nella battaglia delle industrie contro il sistema di controllo delle sostanze chimiche previsto dal Regolamento europeo Reach e dal pacchetto clima che prevede la riduzione delle emissioni”.

Ognuno difende i propri interessi. A cavallo delle norme, sfruttando un vuoto normativo, facendosi furbi con il cavillo da interpretare. L’elenco delle piccole o grandi astuzie è ben assortito. C’è chi dichiara meno di quello che spende in lobbying, per passare inosservato. Oppure si può scegliere una categoria ma in realtà rappresentarne un’altra. La riprova è quella dei think tank: nel registro compaiono 451 centri di studio, istituti accademici e di ricerca. La maggior parte fa davvero questo tipo di attività, ma molti altri usano la scusa dell’osservatorio come una sorta di copertura per esercitare una vera e propria attività di lobbying.