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Idrogeno e rinnovabili, la Namibia scopre quanto è rigoglioso un deserto

(Photo: norbertgraef / 500px via Getty Images)
(Photo: norbertgraef / 500px via Getty Images)

“Ora, all’improvviso, il deserto è diventato prezioso”. L’affermazione del ministro delle Finanze Ipumbu Shimi ben riassume l’interesse che la Namibia sta suscitando a livello internazionale. La costante presenza di sole e del forte vento, le hanno permesso di conquistare le attenzioni per il grande potenziale di energia rinnovabile che è in grado di produrre. Più di ogni altro, quell’idrogeno verde di cui tutti necessitano e sono alla disperata ricerca per centrare gli obiettivi ambientali dei prossimi decenni.

Con una media di 300 giorni di sole all’anno, la Namibia è infatti il secondo Paese al mondo per irraggiamento solare. Per di più, il nome della capitale è tutto un copione: Windhoek significa letteralmente “angolo di vento”, che potrebbe presto spostarsi al centro del mondo dato l’afflusso di investimenti che sta ricevendo.

Tra le prime a mettere gli occhi sulla Namibia è stata la Germania, esperta conoscitrice del territorio per via del suo trascorso colonialista (il Paese uscì dall’influenza dell’Impero tedesco nel 1919, dopo trentacinque anni di subordinazione). “C’è già una corsa in tutto il mondo per le migliori tecnologie dell’idrogeno e le migliori località per la [sua] produzione. Dal nostro punto di vista, la Namibia ha delle possibilità particolarmente buone in questa competizione”, aveva dichiarato a fine agosto l’allora ministro della Ricerca, la tedesca Anja Karliczek, nel momento di firmare una partnership con il Paese africano per l’idrogeno verde. Una collaborazione che ha visto Berlino investire circa 40 milioni di euro da destinare a progetti pilota e studi di fattibilità, oltre a rafforzare la formazione di esperti e specialisti del settore. Per l’ex ministro tedesco - che l’8 dicembre ha ceduto il testimone a Bettina Stark-Watzinger, del Partito Liberale Democratico, entrata a far parte del nuovo governo Scholz – il prezzo per un chilo di idrogeno “made in Namibia” si attesterebbe tra 1,50 euro e 2 euro. Un valore molto conveniente che rappresenta una ghiotta opportunità per la Germania, visto che “abbiamo bisogno di grandi quantità in tempi rapidi e a prezzi al chilo economici”.

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A mancare però non è l’idrogeno in sé per sé. Al momento, la quasi totalità è di colore grigio (96%), in quanto proveniente dai combustibili fossili. Subito dopo c’è quello blu, meno inquinante rispetto al primo perché deriva dalla CO2 presente nell’aria. Infine quello verde, il più importante e necessario per dare concretezza alla transizione ecologica ma anche il più difficile da trovare. Viene infatti ricavato dall’acqua e dall’energia elettrica e ha un costo quattro o cinque volte maggiore rispetto a quello grigio. La convinzione – o la speranza - della Germania è che la Namibia, grazie alle caratteristiche del suo territorio e la liquidità immessa da Berlino, possa diventare un polo di idrogeno a basso costo da cui potersi rifornire per raggiungere lo status di “carbon free” entro il 2050. Per riuscirci, però, il Paese africano necessita di essere accompagnato lungo questo percorso.

“Riconoscendo l’inevitabilità della transizione energetica, comprendiamo e accettiamo che i combustibili fossili non sono più il carburante del futuro e che il mondo sta passando alle energie rinnovabili”, aveva dichiarato il ministro delle miniere e dell’energia, Tom Alweedo, intervendo al Renewable Energy Business tenutosi a Dubai a fine novembre. Dimostrazione eloquente è il National Integrated Resource Plan (NIRP), partorito nel 2013, rivisto tre anni più tardi e che dovrebbe ricevere la sua forma ufficiale entro il 2022. Con questo progetto a lungo termine, il Paese punta a soddisfare la domanda di risorse energetiche. Entro il 2030, è stato previsto che l’energia della Namibia deriverà per il 70% dalle rinnovabili, mentre l’80% di quella utilizzata verrà prodotta internamente. “Tuttavia”, ha sottolineato l’ex governatore della Banca della Namibia, “chiediamo anche una transizione energetica giusta ed equa tra le nazioni. Dobbiamo guardarci da un processo di transizione energetica che ha il potenziale per influenzare negativamente alcuni senza alcuna mitigazione”. La Namibia conosce il suo potenziale e, non a caso, nel piano di ripresa economica post Covid promosso dal presidente Hage Geingob la transizione ecologia riveste una parte importante. Proprio per questo, il suo governo era stato invitato a presentarlo al World Economic Forum di Davos, previsto per gennaio ma rinviato a causa del dilagare di Omicron.

Ciononostante, potrebbe non essere sufficiente. Il governo da solo non è in grado di poter raggiungere gli standard richiesti e, per tale ragione, si è affidato a investitori locali e stranieri, pubblici e privati. Windhoek ha così lanciato una proposta internazionale per capire quali e quanti investitori fossero interessati al progetto. Alla fine il progetto se l’è aggiudicato l’Hyphen Hydrogen Energy, per un valore complessivo di 9,4 miliardi di dollari, e dovrebbe portare a una produzione di idrogeno verde puro o derivato (ammoniaca) pari a 300 mila tonnellate all’anno. Si tratta del primo progetto di questo tipo e il sito è stato individuato nel parco nazionale Tsau/Khaeb, nel deserto Namib a sud ovest del Paese, tra i primi cinque posti al mondo per la produzione di idrogeno a basso costo. L’annuncio era arrivato direttamente dal presidente Geingob durante il summit internazionale sul clima che si è tenuto a Glasgow a inizio novembre. Una volta approvato definitivamente il progetto l’Hyphen, una joint venture tra la britannica Nicholas Holding e la tedesca Enertrag, avrà la possibilità di gestirlo per i prossimi quarant’anni e creare circa 20mila posti di lavoro, il 90% ricoperti da namibiani. Da qui verrà prodotto l’idrogeno da redistribuire internamente ed esportare.

Smistarlo in tutto il globo, però, non sarà un’operazione semplice. Come scritto dal Wall Street Journal, l’esportazione del prodotto finito tramite navi richiederebbe un ammodernamento del porto di Lüderitz dato che si trova in acque poco profonde. Essendo una nazione tendenzialmente molto arida, per produrre idrogeno verde servirà desalinizzare l’acqua del mare attraverso degli impianti nuovi quanto costosi. Per Berlino questo non dovrebbe rappresentare un problema, in quanto nella somma finale il costo per lo sviluppo portuale si attesterebbe intorno all’1%. Ma da qui potrebbero aprirsi orizzonti più ampi, con ulteriori protagonisti pronti a entrare sulla scena.

Tra questi, naturalmente, quella Cina tanto affamata di risorse naturali che in Africa ha già messo più di un piede. In Namibia, l’altro porto di Walbis Bay – l’unico a trovarsi già in acque molto profonde dato che è stato costruito su 40 ettari di terreno recuperato dal mare tramite bonifica - è stato ricostruito in cinque anni dalla China Harbour Engineering Company (CHEC). Rispetto al solito modo di operare da parte di Pechino, la modalità era stata leggermente differente. In questa occasione, infatti, i 268 milioni di dollari sono stati stanziati per il 73% dall’African Development Bank, mentre il restante 27% dal governo della Namibia. Ai cinesi, invece, è stato affidato il ruolo di appaltatori ma non per questo l’influenza del Dragone dovrebbe essere minore. Anzi, con la questione idrogeno in atto gli occhi di Pechino si sono rivolti ancor di più lungo le coste della Namibia, entrata nell’orbita dalla Via della Seta da qualche anno. Il comune di Lüderitz ha già stimato la cittadina aumenterà di circa dieci volte la sua popolazione grazie agli investimenti previsti, che dovranno necessariamente includere nuove abitazioni e l’espansione di servizi essenziali, dall’acqua alle fognature.

La questione acquista ancor più risalto dato che la Namibia sembrerebbe aver superato il vicino Sudafrica nella produzione di energie rinnovabili. Pechino aveva già mostrato interesse per la quantità di terre rare e l’operazione del porto di Walbis Bay era volta proprio a consolidare la sua presenza nell’area. Quando il presidente Geingob ha annunciato il suo progetto alla Cop26 di Glasgow, il suo omologo sudafricano Cyril Ramphosa stava trovando un modo per aumentare gli sforzi di produzione dell’idrogeno verde nella zona speciale di Boegoebaai. Per Ramaphosa, dalla collaborazione dei due Paesi confinanti per lo sviluppo di risorse verdi potrebbero nascere benefici enormi. Forse è per anche per questo che l’azienda petrolchimica ed energetica sudafricana, la Sasol, ha bussato alle porte del governo di Windhoek per tastare il terreno e vedere quanto margine di manovra avesse per eventuali progetti congiunti. Se da un lato il silenzio dell’azienda sulle offerte avanzate non permette di conoscere meglio lo stato dell’arte, certo è che questo “angolo” di Africa sta conquistando sempre di più il centro della scena mondiale.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.