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Il Semaforo oscura il verde, Berlino non vuole liti con Parigi sul nucleare

Germania (Photo: Getty&HP)
Germania (Photo: Getty&HP)

La protesta è durata solo un giorno e ha fatto rapidamente posto alla presa d’atto che oltre non si può andare. Il nuovo governo federale tedesco non si opporrà alla decisione della Commissione Europea di inserire l’energia prodotta dal nucleare di vecchia generazione nella tassonomia green. La ministra dell’Ambiente Steffi Lemke vede poche possibilità che la Ue cambi i suoi piani sulla proposta in merito alla classificazione delle energie pulite. “Ho dei dubbi che la proposta sia ancora suscettibile a modifiche o che possa essere fermata”. Un emendamento della proposta sarebbe possibile solo se la maggioranza degli Stati membri dicesse no a questa proposta, aveva spiegato la presidente della Commissione Ursula von der Leyen qualche tempo fa. La ministra ha poi ribadito quanto già ricordato lunedì dal portavoce del governo tedesco: “La Spd, il cancelliere Olaf Scholz, hanno chiarito che dal punto di vista del governo tedesco il nucleare non è un investimento sostenibile” sotto il profilo ambientale. Ma la protesta finisce qui, e comunque non sembra poter sfociare in una iniziativa congiunta, annunciata lunedi dai governi dell’Austria e del Lussemburgo, per portare la questione davanti alla Corte di giustizia dell’Ue.

Il dietrofront del governo federale, che ieri aveva usati toni ben più aspri “respingendo espressamente” la valutazione dell’Ue sull’energia atomica e annunciando una valutazione “sui i prossimi passi da compiere”, rispolvera quello che molti definiscono l’ambientalismo di facciata di Berlino.

Da un lato la Germania ha deciso di chiudere col nucleare: il 31 dicembre ha staccato la spina a tre delle sue ultime sei centrali nucleari. I reattori di Brokdorf, Grohnde e Gundremmingen C, operati dalle utility E.On e Rwe, sono state chiusi dopo 35 anni di attività. Mentre le ultime tre centrali nucleari - Isar 2, Emsland e Neckarwestheim II - saranno spente entro la fine del 2022. Chiusura però non vuol dire smantellamento, che avrà tempi molto più lunghi e si ritiene dovrebbe avvenire entro il 2040 nel caso di Brokdorf, per esempio.

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La Francia, tra i più importanti partner economici della Germania, è il primo produttore di energia dell’Ue (il 20% del totale), di cui il 77,6% deriva dall’atomo e solo il 20% da rinnovabile. Sull’asse Parigi-Berlino nel corso degli ultimi anni sono stati siglati diversi accordi commerciali che si intrecciano con le politiche energetiche dei due Paesi. Uno degli ultimi, ad esempio, quello tra la casa tedesca Mercedes e Automotive Cells Company (Acc), società costituita da Stellantis e TotalEnergies per sviluppare e produrre celle e moduli di batterie per veicoli elettrici. Altri progetti riguardano lo sviluppo di una “gigafactory” per l’idrogeno. Sia Parigi che Berlino hanno pianificato nei prossimi anni, nell’ambito del Recovery Plan, una spesa di circa sette miliardi per lo sviluppo di tecnologie.

Insomma, tra Francia e Germania ci sono visioni differenti ma non la voglia di pestarsi i piedi a vicenda sull’energia, sarebbe un controsenso visti i rapporti economici e strategici tra i due governi. D’altronde, a metà dicembre lo stesso neocancelliere Olaf Scholz aveva lasciato intendere che non intendeva alzare barricate sulle politiche energetiche altrui, alludendo proprio a Parigi: “Già da tempo la Germania ha preso la decisione che l’energia nucleare non prenderà parte alla transizione energetica”, ha detto qualche giorno fa il neocancelliere Olaf Scholz ma ”è importante che ognuno possa proseguire il suo cammino senza minare l’unità dell’Ue”, ha aggiunto sottolineando che “non è un compito facile, ma alla fine dovremo trovare l’unità nonostante le diverse priorità che ci siamo dati”.

Il cambio dei toni nell’arco di ventiquattro ore rischia però di sollevare le solite critiche all’ambientalismo “ipocrita” di Berlino. Da un lato l’uscita dal nucleare è stata salutata con favore dagli ambientalisti. Peraltro, il contributo dell’atomo nel mix energetico è andato gradualmente calando: nel 2021 le sei centrali nucleari hanno contribuito a circa il 12% della produzione di elettricità in Germania. Così come graduale è stato il calo dell’apporto delle fonti fossili e l’incremento di quelle rinnovabili. È tuttavia la velocità della transizione energetica a finire sempre sotto accusa. Ancora oggi, il mix energetico tedesco è costituito da un 41% di rinnovabili, dal 28% di carbone e dal 15% di gas. Secondo i piani, entro il 2030 la Germania punta soddisfare l′80% di domanda di energia con le rinnovabili. Al 2030 mancano ancora otto anni, per ora quello che si sa è che la Germania “probabilmente” mancherà gli obiettivi stabiliti dalla legge sulla protezione del clima per il 2022 e anche nel 2023 sarà “abbastanza difficile” conseguirli. Il Paese parte, infatti, con “un drastico ritardo”, ha ammesso di recente il ministro dell’Economia e della Protezione del clima tedesco Habeck.

L’impegno sulle rinnvoabili non manca: in Europa nel 2020 sono stati installati oltre 30mila MW, con Germania, Spagna e Francia in prima linea, a differenza dell’Italia, ferma a mille MW, secondo un recente studio di Italy for climate. Secondo l’Iea la Germania continuerà a detenere il maggior aumento della capacità delle rinnovabili in Europa, seguita da Francia, Olanda, Spagna, Regno Unito e Turchia, anche nel 2022. Ma lo sforzo non è ancora sufficiente, e gli stessi Verdi, oggi al Governo, hanno condotto tutta la campagna elettorale per la cancelleria premendo sulla necessità di velocizzare il passaggio alle rinnovabili.

C’è però la nota dolente: la quota ancora rilevante di energia prodotta in Germania da fonti fossili, e in particolare da lignite, un carbone altamente inquinante. E l’uscita dall’energia a carbone, prevista nel 2039 poi anticipata al 2030, è troppo lontana secondo ambientalisti e attivisti. In passato il Governo di Angela Merkel aveva dato vaghe rassicurazioni su un’uscita anticipata dalla lignite, tuttavia ancora oggi il carbone rappresenta un quarto della produzione energetica tedesca. Il primo impianto di lignite è stato chiuso nel 2020, e altri seguiranno entro la fine del 2022. Nel frattempo però le estrazioni procedono e in certi casi aumentano. A metà dello scorso anno il governo della Renania settentrionale-Vestfalia ha autorizzato l’espansione della miniera a cielo aperto di Garzweiler, una delle più grandi del Paese. A questa miniera, gestita da RWE, è stato concesso un trattamento speciale nella legislazione sull’uscita del carbone a causa dei presunti rischi per la sicurezza dell’approvvigionamento energetico nella regione. Per questo si è deciso di demolire due località cittadine, Lützerath e Keyenberg, per incrementare l’estrazione prima dell’uscita di scena della lignite. Il colosso tedesco dell’energia RWE, che tramite le sue società controllate distribuisce elettricità a oltre 120 milioni di clienti, in Europa e Nord America, nel 2018 fece abbattare l’ex chiesa cattolica di San Lamberto a Immerath per ampliare la sua miniera, in costante espansione a danno di centri abitati e foreste fin dalla sua controversa apertura nel 1995. E certo non si può dire che nel 2018 non ci fosse la consapevolezza di ridurre la dipendenza energetica dal carbone.

La dipendenza dalle fonti fossili è ancora troppo accentuata in Germania secondo gli ambientalisti: nel 2021, ha prodotto 110 TWh dall’eolico, seguito al secondo posto (100 TWh) dalla lignite, oltre a cinquanta circa dal carbone. L’anno scorso il ricorso a lignite e carbon fossile è cresciuto del 18% ciascuno, mentre le energie rinnovabili hanno quasi ristagnato, a causa soprattutto di condizioni meteorologiche avverse, secondo il gruppo di ricerca dei mercati energetici Ageb. In questo modo la politica energetica tedesca è finita sotto il fuoco incrociato di due fazioni tra loro opposte: quello degli ambientalisti, com’è ovvio, ma anche quello dei sostenitori del nucleare.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.

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