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La polvere della Brexit riemerge da sotto il tappeto

Britain's Prime Minister Boris Johnson gestures during a visit to the UK Battery Industrialisation Centre in Coventry, central England on July 15, 2021.






West Midlands.
15th July 2021 (Photo by David Rose / POOL / AFP) (Photo by DAVID ROSE/POOL/AFP via Getty Images) (Photo: DAVID ROSE via Getty Images)
Britain's Prime Minister Boris Johnson gestures during a visit to the UK Battery Industrialisation Centre in Coventry, central England on July 15, 2021. West Midlands. 15th July 2021 (Photo by David Rose / POOL / AFP) (Photo by DAVID ROSE/POOL/AFP via Getty Images) (Photo: DAVID ROSE via Getty Images)

Nascondere la polvere sotto il tappeto sperando che scompaia da sola non è sempre il metodo migliore per risolvere i problemi. Nell’accordo concluso a dicembre del 2020 tra Regno Unito e Unione europea sulla Brexit, Boris Johnson aveva sottoscritto l’impegno a prevedere controlli doganali sulle merci in transito tra l’isola e l’Irlanda del Nord, nonostante quest’ultima sia parte integrante del Regno Unito. Era la condizione necessaria per lasciare aperta la frontiera tra le due Irlanda, come da tutti voluto per preservare lo spirito e l’efficacia degli accordi del Venerdì Santo che avevano posto fine alla guerra civile (1998).

Nell’intesa tra Londra e Bruxelles il punto era ovviamente ineludibile. Senza quei controlli intra-Uk, lasciare aperto il confine tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda significherebbe aprire un buco nella rete dell’unione doganale dell’Ue, da cui Londra ha deciso di uscire. Da quel varco potrebbero poi entrare illegalmente in Ue, via Regno Unito, anche merci di Paesi terzi legati a Londra da accordi di libero scambio. Insomma, configurare l’Ulster nell’unione doganale attraverso il transito libero delle merci da e per la Repubblica d’Irlanda e, allo stesso tempo, mantenere l’Irlanda del Nord sotto la giurisdizione di Londra assomiglia molto alla quadratura del cerchio.

Di fronte a incertezze e difficoltà nell’introdurre controlli doganali efficaci, il Governo britannico ora ha chiesto di rinegoziare l’intesa con Bruxelles, smentendo se stesso con buona pace dell’imperativo pacta sunt servanda. La Commissione europea non esclude una certa flessibilità, ma nell’ambito dell’accordo sottoscritto. Al momento sembra un discorso tra sordi, lo stallo rischia di avvelenare gli animi e pregiudica gli sforzi di quanti, su entrambi i lati della Manica, si adoperano per porre le migliori basi per la futura relazione Ue-Uk post-divorzio.

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Si fa strada l’idea che in realtà, sin da quando approvavano quella disciplina, i negoziatori britannici agissero con la riserva mentale di chi sa di non poter o voler adempiere all’obbligo. Adesso prospettano l’ipotesi di un regime basato in sostanza sulla fiducia negli operatori, i quali assicurerebbero su base volontaria che una volta giunte dall’isola in Irlanda del Nord le merci non proseguirebbero surrettiziamente verso l’Ue attraverso la frontiera irlandese. Boris Johnson, cultore di Roma e della sua civiltà, forse si è ispirato al criterio “famo a fidasse”, ma è difficile che convinca la Commissione.

Allora, come risolvere l’equazione, resa ancor più ostica da dichiarazioni e documenti governativi certo non improvvisati? Con la Brexit il Regno Unito ha ripreso, come voleva, il controllo dei suoi confini ma ha anche concordato che uno di essi, il solo terrestre con la Ue, dovrà restare aperto. Sul Financial Times qualche tecnico ripropone l’ipotesi della “doppia autonomia”, l’introduzione nel Regno Unito con normativa nazionale di standard Ue solo per i beni destinati all’esportazione in Ue, col vantaggio di non essere percepita come un’imposizione della maligna burocrazia europea. Ma la soluzione del dilemma non sembra a portata di mano, con il rammarico di quanti sanno quanto resti, debba restare, strategico il rapporto dell’Ue con Londra nel mutuo interesse.

Intanto a Belfast gli unionisti scalpitano contro ogni misura suscettibile di allentare i vincoli con l’isola, Boris Johnson con non pochi problemi sul tavolo tira dritto e rifiuta di esplorare la via di un (nuovo) compromesso. C’è un’aria di sufficienza, se non di sfida, che non lascia intravedere grandi margini di manovra e spinge Bruxelles a difendere soprattutto le intese laboriosamente negoziate e sottoscritte. Il fatto è che allo stato attuale le armi dei Ventisette, come una procedura d’infrazione, non sono tali da intimorire davvero il governo britannico.

Altro peso avrebbe una pressione di Washington su impulso di Joe Biden, sensibile alla causa irlandese e attento a non minare l’equilibrio non scontato che ventitré anni fa lì pose fine a un’assurda carneficina. E ancora di più potrebbe servire un’analisi oggettiva, a Whitehall, di quanto alla fine gli ultimi sviluppi possano nuocere a un fondamento essenziale dell’identità del Regno Unito: la sua reputazione nel mondo.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.