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L'automotive licenzia ancora. "20-30% aziende componentistica non sopravviverà"

Timken (Photo: Twitter Fiom-Cgil)
Timken (Photo: Twitter Fiom-Cgil)

L’ultimo incontro, quindici giorni fa, era servito a fare un punto sul piano ferie e a programmare l’agenda di settembre con all’ordine del giorno il contratto aziendale e i premi di risultato. Per questo quando stamattina i cellulari dei sindacalisti della Timken di Villa Carcina, nel bresciano, hanno iniziato a squillare, nessuno si aspettava di essere convocato allo stabilimento nel giro di un paio d’ore. Tantomeno di ritrovarsi di fronte il direttore europeo della multinazionale statunitense che produce cuscinetti per il settore dell’auto. Il motivo dell’urgenza passa da una comunicazione di cinque righe che è lo stesso direttore a leggere: l’impianto è in perdita, i costi sono aumentati, i clienti vanno soddisfatti attraverso altre strategie. L’ultima riga dice che si chiudono i cancelli e si procede al licenziamento dei 106 lavoratori. Questa non è solo la storia della terza multinazionale della meccanica che decide di fermare la produzione e di licenziare in Italia nel giro di due settimane. Il filo rosso che unisce questa vicenda a quella della Gianetti Ruote e della Gkn è quello del prezzo che sta già iniziando a pagare un settore - la componentistica dell’automotive - immerso in una transizione verso l’elettrico che si sta rivelando complessa.

Non tutte le circa 2.200 imprese che producono componenti per la filiera dell’auto passeranno indenni dalla transizione ecologica, cioè da quel meccanismo di trasformazione della produzione industriale che il governo italiano si è impegnato a tirare su attraverso il Recovery. L’accordo politico in Europa per fare dei cambiamenti climatici un’opportunità per costruire un nuovo modello economico passa da impegni imponenti, come la riduzione entro il 2030 delle emissioni di almeno il 55% rispetto ai livelli del 1990 e la vendita esclusiva di macchine elettriche dal 2035, con l’addio a benzina e diesel, per centrare l’obiettivo zero emissioni. Ma questa transizione deve passare non solo dalla natura della produzione dell’energia e dai comportamenti dei cittadini di ogni singolo Paese. L’Italia, cioè, non dovrà solo decarbonizzarsi e partire dal fatto che sulle strade ci sono 30 milioni di macchine fino a Euro 3, cioè molto inquinanti, e appena 20mila colonnine elettriche. Il tema non è solo quello delle pale eoliche e dei pannelli fotovoltaici invece che delle rinnovabili al posto delle produzioni inquinanti. Riguarda anche la natura della produzione industriale.

Quello della componentistica dell’automotive è un settore che fino ad ora ha rappresentato un fiore all’occhiello della manifattura italiana: 50 miliardi di fatturato e un saldo attivo di 5,5 miliardi secondo i dati diffusi dall’Anfia, l’Associazione nazionale della filiera industria automobilistica. È un anello fondamentale della filiera che si conclude con l’assemblaggio della macchina se si considera che sono circa 2.200 le imprese del settore su un totale di 5.546 imprese dell’industria dell’automotive italiana. Anche dal punto di vista della forza lavoro che impiegano, la componentistica assorbe una fetta importante della filiera, con 164mila sui 278mila addetti alla produzione (il totale sale a 1,25 milioni se si sommano anche i servizi). Sono una parte considerevole di un fatturato dell’intera industria che ammonta a 106,1 miliardo, l′11% del manifatturiero, il 6,2% del Pil. I componenti che escono dagli impianti di queste aziende finiscono nelle case auto di tutto il mondo. Come i cuscinetti a rulli conici a fila singola della Timken, ma anche i cerchioni che si fanno alla Gianetti Ruote di Ceriano Laghetto per i veicoli pesanti, ancora i semiassi alla Gkn di Campi Bisenzio.

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Ora è evidente che se il traguardo è quello dell’auto elettrica tra quindici anni è altrettanto evidente che produrre una macchina a emissioni zero non è la stessa cosa che produrre una macchina con un motore a combustione. Eccolo il prezzo che sta già pagando la componentistica. Il conto è partito ben prima del Covid perché il lockdown ha fermato le macchine e fatto crollare le immatricolazioni, ma che l’auto così come l’abbiamo conosciuta fino ad adesso fosse un business logorato l’hanno capito per primo chi le produce. Non tanto per una sensibilità diffusa a livello dei comportamenti (le macchine elettriche o ibride sono in aumento, ma ancora minoritarie rispetto al parco auto generale), ma per una serie di fattori, anche geopolitici, che spingono i produttori a scelte o comunque a pianificazioni basate sulle tecnologie inquinanti anche in virtù del comportamento dei loro concorrenti.

Insomma il mondo dell’auto stava già cambiando prima della pandemia, poi il Covid ha di fatto accelerato questa consapevolezza. La spinta americana di Biden e il Green Deal europeo hanno fatto il resto. Ma questa transizione, che andrà governata a livello mondiale, ancora prima europeo, a un livello precedente nazionale, non tirerà tutti dentro. È utile qui un rapporto elaborato dall’Anfia con la società di consulenza strategica tedesca Roland Berger: l′85% dei componenti del cosiddetto powertrain tradizionale sarà obsoleta nei veicoli elettrici perché l’architettura dello stesso veicolo passerà da 1.400 a circa 200 componenti. Non è solo una questione numerica. I componenti tradizionali, come i sistemi di raffreddamento e di trasmissione, dovranno essere aggiornati per soddisfare i nuovi requisiti che saranno richiesti dalle batterie o dalla configurazione ibrida dell’auto. Un esempio: freni, pneumatici, ruote e sospensioni dovranno essere riadattati. Poi c’è tutta una filiera che deve, se non proprio nascere, quantomeno irrobustirsi: batterie e motori elettrici sono componenti nuovi che tra l’altro devono rincorrere la tecnologia che si evolve.

Tutto questo fa parte del pacchetto della trazione elettrica. Poi ci sono le trasformazioni che la componentistica si troverà a dover gestire in materia di guida autonoma e rivoluzione digitale a bordo. Le macchine saranno sempre più connesse, aumenteranno videocamere e radar in linea con la guida automatica. Le centraline a bordo caleranno del 90% e a regime potrebbe bastarne una invece di una per ogni componente. Un grafico aiuta a capire quali sono le opportunità che si aprono per la componentistica, occasioni che tuttavia comportano la cessazione di alcuni business, con i relativi posti di lavoro, e l’attivazione di altri.

Componentistica auto (Photo: Anfia)
Componentistica auto (Photo: Anfia)

Il saldo di questi movimenti non è zero. Le stime più accreditate stimano in un 70-80% le imprese della componentistica dell’automotive in Italia che sono coinvolte nella transizione tecnologica green, ma questa percentuale non racconta di un processo concluso. Alcune di queste aziende hanno attivato investimenti su ricerca e sviluppo, altre sulla tecnologia a zero emissioni, altre ancora hanno programmato la transizione. Ma dentro ci sono anche quelle aziende, come quelle che producono i cristalli, che non subiranno ripercussioni dalla metarmofosi del settore. Un 20-30%, invece, resterà fuori o comunque avrà difficoltà ad agganciare il nuovo corso.

Anche con questo bisogna fare i conti. L’hanno spiegato bene i ministri alla Transizione ecologica Roberto Cingolani e quello allo Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti. La transizione non sarà indolore. E qui ritorna il Green Deal europeo. Il pacchetto Fit for 55 con cui la Commissione europea vuole attuare il Piano verde è partito lentamente ed è stato subito contestato. Al G-20 del clima che si terrà a Napoli dal 21 al 23 luglio si capirà ancora meglio come evolveranno i malumori nati tra i diversi Paesi, ancora di più dato che il parterre è più ampio e coinvolgerà Paesi come gli Stati Uniti e la Cina. Se tutti hanno a cuore, seppure con diverse gradazioni, gli obiettivi sul clima, in ballo ci sono pure gli interessi economici.

È una questione internazionale, ma anche nazionale. Nel governo italiano prende sempre più piede l’obiettivo di mitigare l’impatto che il Fit for 55 potrebbe avere sotto forma di perdite di produzione e posti di lavoro nel settore dell’automotive, ma anche di bollette più care per sostenere i costi della transizione nella produzione di energia. “La transizione energetica non sarà indolore perché comporta enormi sforzi economici, cambiare mentalità delle persone sugli acquisti, sulla mobilità, sulla produzione di beni e avrà costi aggiuntivi”, ha spiegato Cingolani a Bloomberg. E Giorgetti ha aggiunto un’altra parte importante alla questione che si è aperta: “Cosa faremo quando chiuderanno le aziende che non saranno in grado di riconvertire la produzione?”. Le riflessioni dei due ministri non puntano a stravolgere l’obiettivo di fondo del Green Deal, ma a governarlo. Per questo, come spiegano fonti dell’esecutivo di primissimo livello, l’Italia non chiederà a Bruxelles di rivedere i target fissati per il 2035 e per il 2050, ma punterà a chiedere dei correttivi nell’ambito dell’applicazione del Fit for 55.

“Se andiamo dritti come un treno rischiamo di far odiare la transizione ecologica ai cittadini e di far tornare i gilet gialli”, rivelano le stesse fonti che hanno tastato il polso della discussione dentro al Governo. Il concetto base è che la transizione non sarà gratuita e che quindi servono strumenti immediati per prepararla. Per questo il Governo sta lavorando a un piano che punta sugli incentivi, ma anche su strumenti per calmierare le bollette. Cingolani spinge sulla necessità di lavorare per arrivare a 70 Gigawatt di rinnovabili nei prossimi anni, portando il 72% dell’energia elettrica a essere rinnovabile. Senza il rispetto di questi impegni, che passa anche dalla necessità di potenziare il sistema delle infrastrutture energetiche (in primis le colonnine elettriche), le auto elettriche non avrebbero senso perché si alimenterebbero di energia sporca. Poi c’è la gamba più economica. Giorgetti ha dato una traccia: “Formeremo i licenziati delle nuove tecnologie per reinserirli o aspetteremo che si moltiplichino le situazioni di crisi con milioni di persone disperate per strada?”. Il tema è centrale perché la stagione della cassa integrazione permanente, sostenuta dal Pd e dai 5 stelle e non da ora, si è dimostrata fallimentare sul lungo periodo. La politica industriale ha bisogno di una strategia. E di coerenza. Il Pd e i grillini più vicini a Giuseppe Conte hanno messo sotto il Governo su un emendamento relativo alle opere strategiche che aveva il parere contrario dell’esecutivo. Non sono pochi i malumori in casa 5 stelle sul decreto Semplificazioni che è chiamato a snellire la burocrazia verde. Una riconversione si fa con le norme, con gli incentivi, ma anche con un grande patto politico-istituzionale.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.