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Perchè proprio la Turchia?

La lira turca in caduta libera: -16% nella sola giornata di venerdì scorso, -9% oggi. Un risultato, quello odierno, che è stato limitato grazie all’intervento della banca centrale turca a sostegno della sua moneta.

L'intervento della Banca Centrale

L'Istituto centrale turco sarebbe pronto a dare vita a politiche di aiuto che comprendono tutte le misure necessarie (compresa l’iniezione di liquidità all’interno del mercato) per garantire la stabilità finanziaria nazionale. La conferma arriva anche dal ministro delle Finanze Berat Albayrak, che ha parlato di una lira turca “sotto attacco”. Nello stesso tempo sono state smentite le voci che parlavano di eventuali interventi sui conti correnti in dollari. Nello specifico la banca centrale di Ankara avrebbe diminuito l'importo obbligatorio a carico dei finanziatori commerciali depositato da loro presso l'autorità di regolamentazione allargando le maglie sulla gestione della lira.

Agli occhi dell’opinione pubblica, il caso Turchia è esploso con l’annuncio, da parte del presidente Usa Donald Trump, di un aumento dei dazi su acciaio e alluminio provenienti da Ankara come ritorsione per la decisione turca di allungare la detenzione di Andrew Brunson, il pastore anglicano detenuto in Turchia con l’accusa di essere una spia curda. In realtà, però, le radici della crisi sono più profonde.

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Tutto ebbe inizio, come spesso accade, con l’entrata in scena delle politica di Quantitative Easing volute a suo tempo dalla Federal Reserve statunitense, politiche che se da un lato permisero il salvataggio del dollaro e dell’economia a stelle e strisce (e forse anche mondiale visto che fecero da traino per il resto dei QE mondiali) dall’altro portarono anche allo spostamento dei capitali verso lidi più appetibili (anche a costo di aumentare i rischi), in vista di una serie di ritorni più alti. Gli investitori si sono mossi, nel tempo, verso panorami più allettanti e spesso anche “esotici”, il che ha permise il boom dei cosiddetti Emergenti e, tra questi, anche un ritorno della Turchia, nazione che, ad oggi, può vantare quella che è un vero e proprio miracolo economico. Come spiegare, allora, la tempesta che l’ha coinvolta nei giorni scorsi e che a quanto pare potrebbe continuare ancora per qualche tempo?

Il boom prima della crisi

Il paradosso arriva proprio da qui, ovvero da quelle politiche monetarie espansive di Stati Uniti ed Europa che hanno favorito la diffusione del credito facile: con il prospettarsi dalla fine del QE a livello internazionale è arrivato anche il deflusso dei capitali. Tutto questo proprio mentre, come detto, il credito facile ha favorito l’aumento dell’indebitamento e del rifinanziamento di quello estero che, nel settore privato, arriva a superare il 50%, in parallelo ad un deficit che per le partite correnti è del 6% del Pil.

Una crescita economica che negli ultimi anni è stata certamente forte ma altrettanto certamente squilibrata. In particolare verso l’estero: numeri alla mano si può vedere come le passività totali abbiano registrato un passaggio dagli iniziali 282 miliardi di dollari di inizio 2016 ai 683 di fine 2017. Non solo, ma dal 2011 ogni anno gli investimenti non sono mai andati sotto il 22% del Pil con la punta massima registrata proprio in questo 2018 con il 31,3%. A peggiorare la situazione, anche la svalutazione della lira turca che ha dato vita ad una pericolosa spirale inflazionistica interna.

Il fronte diplomatico

Non meglio sta andando sul fronte internazionale e diplomatico. Fonte di dissidio con gli Usa sono stati prima di tutto l’intervento del presidente turco Recep Tayyip Erdogan in Siria a sostegno delle armate russe, il tutto mentre, sempre la Turchia, appoggia l’idea del Blue Stream, il gasdotto che potrebbe portare il gas russo in Europa, osteggiando il commercio degli energetici statunitensi con il Vecchio Continente. Insomma, la nazione che è al confine tra Est ed Ovest e che da sempre è stata ponte tra le due parti del mondo, questa volta sta giocando una partita pericolosa, minacciando di allearsi con Russia e Cina (o sperando per lo meno nel loro appoggio economico più o meno diretto); partendo da questi presupposti, perciò, la questione della detenzione del pastore cristiano evangelico Andrew Brunson, detenuto in Turchia dall’ottobre 2017, appare sempre più come un pretesto da parte di Washington, così come la protezione da parte degli Usa di Fethullah Gulen, responsabile, secondo Erdogan, del fallito golpe del 2016. Golpe che, per molti osservatori, è giudicato come il punto di svolta della politica turca, in realtà già da tempo già orientata verso un approccio più conservatore.

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