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Petrolio in calo, troppi i debiti: torna la paura sui dividendi

La mattinata a Piazza Affari si è rivelata debole e attendista come era facile revedere visto l'appuntamento di Jackson Hole in cui i banchieri centrali, orfani di Mario Draghi, si incontrano per fare il punto della situazione alla fine della pausa estiva. Intorno alle 12.30 il listino milanese segnava un calo dello 0,66%, più o meno in linea ocn il resto delle piazze europee che vedevano Londra a -033%, il Dax di Francoforte a -0,90% e Parigi a -0,7%. Una zavorra arriva dal risultato negativo dell'Ifo, l'indice di fiducia dlele imprese tedesche, che ad agosto registra il livello più basso dalla fine del 2014 ovvero 106,2 contro attese che guardavano a un risultato di 108,5 e cioè in miglioramento sui 108,3 di luglio.

Uno sguardo al settore energia: rialzi sospetti

Intant, già dalla mattinata c'è n altro protagonista che ha inizato a dare segni di insofferenza: il petrolio. Dopo i rialzi continuati (e per molti versi sospetti) nati ad agosto sull'onda delle voci insistenti circa un possibile accordo dopo il vertice di settembre dell'Opec in Algeria. Un accordo che per molti è difficile che venga raggiunto ma che rappresenta sempre un buon metodo per far rialzare le quotazioni del greggio, magari condito, come avvenuto in queste ultime ore, dall'indiscrezione che vorrebbe l'Iran disposto a collaborare per un possibile congelamento della produzione. Ad ogni modo l'inconsistenza dei rialzi è stata dimostrata dal fatto che la materia prima ha registrato un crollo dopo la pubblicazione del dato sulle scorte Usa, scorte in aumento inatteso. Secondo l’EIA, divisione del Dipartimento dell’Energia americano, le scorte di petrolio al 19 agosto hanno visto un aumento di 2,5 milioni di barili contro attese che non arrivavano a 0,45, il che ha portato il totale a 523,6 MBG.

Resta l'abbondanza

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Ma l'abbondante presenza di petrolio sembra essere una caratteristica che rimarrà a lungo presente nel panorama dell'immediato futuro. Un altro, ennesimo esempio arriva dal Mar Caspio dove il giacimento di Kashagan si prepara a tornare a pieno regime e a portare nuovi barili di greggio sul mercato: le prime stime parlano di un inizio che non andrà oltre i 140 mila barili al giorno ma presto, per la precisione quando la domanda di greggio sarà aumentata, si arriverà a 1 milione e mezzo approfittando anche dell'ampia disponibilità che offre il giacimento stesso in cui gli esperti contano circa 70 miliardi di barili equivalenti anche se la quantità estraibile dipenderà non solo dalla struttura del giacimento in sé, ma soprattutto dalla quotazione del petrolio: un prezzo troppo basso non renderebbe vantaggioso il processo.

Da tempo, infatti, per la precisione dall'inizio della crisi del greggio, le grandi società hanno dovuto mettere in pratica una serie di strategie per riuscire a bloccare le perdite. Prime fra tutte, il taglio sui progetti avviati quando il petrolio gravitava intorno ai 100 dollari al barile: con una quotazione del genere era vantaggiosa sia l'attività di ricerca e perforazione (quella più costosa visti i risultati incerti e i tempi lunghi) sia quella di raffinazione. Con la fase peggiore della crisi e in particolare con il suo allungarsi, le grandi del settore sono state costrette ad incrementare i tagli e a ottimizzare al massimo i costi e le spese. La prima conseguenza, negativa, è stato l'aumento del debito delle major oil, arrivato, contando solo le prime grandi (Exxon Mobil (Swiss: XOM.SW - notizie) , Royal Dutch Shell (Londra: 0LN9.L - notizie) e Chevron (Euronext: CHTEX.NX - notizie) ) a 184 miliardi di dollari, secondo fonti del WSJ.

Troppi i debiti, troppi i costi

A questo punto il primo sospetto, nonostante le rassicurazioni dei vertici, punta al dividendo, da sempre il punto di forza e di appetibilità, di molti titoli. Innegabile che, qualora la crisi dovesse continuare a persistere (e i presupposti ci sono tutti) allora le multinazionali dell'energia saranno costrette ancora a tagli su ciò che finora è stato gelosamente preservato: la cedola agli azionisti. E le paure aumentano se si pensa che, sempre guardando sul lungo periodo, si dovranno considerare anche i rimborsi per i prestiti ottenuti. Un aiuto sta arrivando dai tassi ancora bassi che la Fed ha lasciato tali finora, anche se l'incertezza regna sovrana sul futuro. L'attività di perforazione in Usa è ripresa visti i rialzi di agosto che hanno portato a un nuovo massimo a 51,22 dollari e a sei sedute consecutive di aumento, intanto le criticità sulla richiesta di petrolio per il 2017 persistono, in considerazione del rallentamento della crescita previsto a livello globale per il prossimo anno.

Brent sotto i 49 dollari al barile. La view di Citi

Con queste premesse risulta impossibile assicurare la sostenibilità sul lungo periodo con un barile che ondeggia tra i 50 e i 60 dollari e che raggiungerà la parte alta della forchetta solo “forse” e non certo nell'immediato come hanno confermato da Goldman Sachs (NYSE: GS-PB - notizie) qualche giorno fa parlando di un petrolio a 45.50 dollari almeno fino alla prossima estate. Attualmente il Brent è sceso sotto la soglia dei 49 al barile confermando così lo scetticismo non solo di Goldman Sachs e di Morgan Stanley (Xetra: 885836 - notizie) , ma anche di Citigroup (NYSE: C - notizie) che vede nel terzo trimestre il Brent intorno a 47 dollari al barile, che potrebbero toccare anche i 40 in corrispondenza del calo stagionale della domanda intorno a settembre.

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