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Riscoprendo Chiaromonte, ecco che si scopre un'altra perla dimenticata: Andrea Caffi

Andrea Caffi (Photo: Biblioteca Gino Bianco)
Andrea Caffi (Photo: Biblioteca Gino Bianco)

Nella raccolta degli scritti di Nicola Chiaromonte, “Lo spettatore critico” (Mondadori), circa una cinquantina di pagine sono dedicate a una figura imprescindibile anche per le altre mille e novecento pagine che restano: Andrea Caffi. “L’uomo migliore, e inoltre il più savio e il più giusto che nel mio tempo io abbia conosciuto”. Così lo definisce Chiaromonte, nell’introduzione alla prima raccolta di testi di Caffi da lui stesso curata, “Critica della violenza”: il libro che ha impedito che Caffi venisse inghiottito completamente dall’oblio. Il lettore può qui trovare quell’introduzione e meravigliarsi delle parole così sfacciatamente impegnative che Chiaromonte usa: “L’uomo migliore, il più savio, il più giusto che nel mio tempo abbia conosciuto”. Parole dette da uno che è stato amico di Albert Camus, Hannah Arendt, Alberto Moravia, Ignazio Silone, Raymond Aron. Un po’ fanno impressione. Soprattutto perché dimostrano che Caffi ha una caratteristica ancor più spiccata che pure in Chiaromonte non manca: l’essere grande, e del tutto sconosciuto.

Quegli scritti di Caffi, scrive Raffaele Manica, introducendo il Meridiano da lui curato, non possono essere pubblicati in una raccolta delle opere di Chiaromonte, ci mancherebbe, ma il lettore deve essere informato che ne costituiscono “la premessa, l’atto di nascita, il terreno di coltura”. Perché Caffi è stato il maestro di Chiaromonte. Un uomo con il quale non ha mai smesso di dialogare, ben oltre la sua morte. Fu Moravia a farli incontrare, quando Chiaromonte lasciò l’Italia fascista e riparò in Francia, esule tra gli altri esuli italiani. L’incontro avvenne a Parigi, all’Hotel Nord-Sud, in Rue Lhomond. Era il maggio 1932. E fu memorabile. Tanto che Caffi lo cita ancora qualche mese prima di morire in una lettera a Chiaromonte. “Ho provato per Moravia una realissima tenerezza. Non dimentico che è lui che l’ha condotta da me”. Chiaromonte era ancora un ventiseienne. Caffi aveva già vissuto sette vite.

Nato a San Pietroburgo, in Russia, nel 1887, da genitori italiani: a sedici anni, aveva fondato il primo sindacato dei tipografi della città. Si vantava di aver reso gli operai socialisti senza dir loro niente di Marx, parlandogli soltanto di letteratura, storia, filosofia. Partecipò alla rivoluzione russa del 1905 e finì nelle galere dello zar per due anni. Poi fuggì in Germania, dove studiò con George Simmel. Si arruolò volontario nel primo battaglione della Legione straniera, sull’onda emotiva della minaccia prussiana su Parigi e andò a combattere sulle Ardenne, convinto che la Prima Guerra Mondiale fosse una guerra giusta, la guerra della democrazia (francese) contro la reazione tirannica (tedesca). Fu la tragedia della sua vita e il primo grande trauma per le idee socialiste e libertarie che professava. Il secondo, ancora più crudele, fu la rivoluzione bolscevica.

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Il Corriere della Sera l’aveva inviato in Russia a raccontare il farsi Stato del leninismo, dopo la rivoluzione d’ottobre. Arrivato a Costantinopoli, oggi Istanbul, si trovò nel mezzo della guerra di resistenza nazionalista di Mustafa Kemal, l’uomo che sarebbe diventato Atatürk, il padre della Turchia moderna. La raccontò. Poi, giunto ad Odessa, lasciò l’incarico. Gli parve insopportabile attraversare la Russia devastata dalle epidemie, dalla fame, dalla guerra civile dietro il riparo del ruolo di giornalista. Arrivò in Russia con tutte le speranze. Ne uscì fracassato. In breve tempo capì di che pasta era fatto il leninismo e, superata la delusione, cominciò la critica, implacabile, in presa diretta, del regime che in Europa era guardato da buona parte dell’intellettualità come il sole dell’avvenire. Finì di nuovo in galera, stavolta sotto la chiave dei secondini comunisti, nel governatorato di Ekaterinoslav, in una prigione ribattezzata da rivoluzionari “il Castello”, per la sua inespugnabilità. Ci passò dentro due anni. Tra vani e sanguinosi tentativi di fuga ed epidemie di tifo.

Questo era l’uomo che Chiaromonte conobbe a Parigi nel 1932. Un uomo che è stato attore, spettatore, vittima, illuso, deluso di alcuni degli avvenimenti più importanti della prima parte del Novecento. Uno che era stato nelle galere zariste e in quelle bolsceviche e fece ancora in tempo a fuggire di nuovo in Europa, in particolare in Italia, dove spiegò la rivoluzione russa al Paese che stava facendosi fascista, scrivendo una serie di articoli sulla rivista “La conquista dello stato”, diretta da Curzio Malaparte, introdotti da una nota che precisava che l’autore era “tutt’altro che fascista”. Anche se un’ambiguità pesa, nella biografia di Caffi, in corrispondenza del primo periodo mussoliniano. Ambiguità scioltasi dopo l’omicidio Matteoti, quando firmò l’appello degli intellettuali anti fascisti e si mise dall’altra parte della barricata. Finché gli fu possibile. Poi, anche lui fuggì in Francia.

Il rapporto che nacque all’inizio tra Caffi e Chiaromonte, entrambi nel gruppo clandestino di Giustizia e libertà, a Parigi, è sintetizzato da una nota di un informatore della polizia fascista, datata aprile 1936, in cui si legge: “Ho potuto constatare personalmente l’enorme ascendente che Caffi esercita su Chiaromonte”. La moglie di Modigliani, Vera, ricorda che nell’ambiente degli esuli italiani tutti guardavano a Caffi “con la devozione di allievo a maestro” per la sua “nobiltà d’intelletto e nobiltà di vita”, ma, in particolare, era su Chiaromonte che aveva un “ascendente straordinario”. Entrambi, nel giro di Giustizia e libertà, erano degli eccentrici. Dotati di scarse abilità politiche pratiche, ma con una stupefacente capacità di capire i movimenti profondi della storia. Chiaromonte aderì all’idea fondamentale di Caffi, che era quella di considerare la crisi dell’Europa deflagrata con la Grande Guerra figlia di una devastante crisi spirituale, dentro alla quale si erano poi sprigionate le forze nichiliste del bolscevismo, del fascismo, del nazismo. Non c’era il comunismo da una parte, il fascismo dall’altra, il bene qui, il male lì, c’erano due declinazioni dello stesso vuoto dell’animo europeo. Perciò, quando l’antifascismo italiano guardava con speranza al comunismo, anche perché Stalin era un alleato contro Mussolini e Hitler, Caffi e Chiaromonte non smisero invece di criticarlo, e di vedere l’abbaglio dei propri compagni. Di qui la rottura dentro Giustizia e libertà. In base a un’analisi probabilmente incapace di produrre risultati pratici nella lotta al Duce, ma straordinariamente in grado di anticipare la realtà dei fatti. La data è quella dell’agosto del 1939. Erano anni che i due battevano su questo tasto e improvvisamente il ministro degli esteri sovietico, Molotov, che di Caffi era stato un compagno di lotta a San Pietroburgo, firmò con il suo omologo nazista, Ribbentrop, il patto per la spartizione della Polonia. Nazisti e comunisti si stringevano la mano. Poi, la Seconda Guerra Mondiale.

Chiaromonte e Caffi scapparono da Parigi verso la Francia meridionale quando l’esercito nazista occupò la città. Passarono da Tours, Bordeaux e raggiunsero Tolosa. Durante la fuga, già drammatica e incerta, Chiaromonte perse anche la moglie, Anny Pohl, una ragazza ebrea di Vienna, già malata di tubercolosi. Nella seconda metà del 1941, decisero di partire per l’America. Arrivarono a Marsiglia. Da lì dovevano imbarcarsi per New York, passando per Orano e Casablanca. Ma, una volta lì, Caffi cambiò idea. Chiaromonte fece di tutto per convincerlo a non desistere. Non ci fu niente da fare. “Una tragica lacerazione” la definì Chiaromonte, in una lettera scritta all’amico appena arrivato a New York.

Per quattro anni, fino all’inizio del 1945, il rapporto tra i due si interruppe. Caffi si accostò alla rete clandestina anti nazista. Fu arrestato ancora una volta e torturato dalla milizia di Vichy, i collaborazionisti francesi. Mentre Chiaromonte negli Stati Uniti stringeva amicizia con Macdonald, esponente della cultura politica libertaria e radicale americana, che lo introdusse nel circolo di “Politics”. Fu in questo periodo che maturò una distanza non solo fisica, ma anche intellettuale ed esistenziale tra i due amici, che culminò nella lettera che è pubblicata anche nel Meridiano di Chiaromonte. È datata 19 settembre 1951 e dice: “Caro Andrea, dovevo a me stesso (e a lei) di provare a esporre le ragioni che penso di avere per non condividere le sue opinioni sulla ‘rivoluzione’, il ‘nichilismo’, e il dovere del ‘buon cittadino’”. Caffi si era sempre più isolato dalla vita. Viveva in miseria, in un Hotel di Parigi, dentro una stanza minuscola, dove c’era solo un letto, per giunta con tre piedi. Il quarto era una pila di libri della Nouvelle Revue Française. Anche le sue idee si erano ripiegate sull’origine: la rivoluzione, il socialismo, l’amarezza delle sconfitte. Mentre Chiaromonte in America era sbocciato. Era entrato nel mondo intellettuale internazionale. Aveva abbandonato l’idea della rivoluzione, l’utopia di un socialismo non totalitario.

Fino alla fine, però, si preoccupò di aiutare materialmente il suo amico Caffi, di procurargli qualche lavoro, di farlo uscire dalla separatezza dal mondo che s’era imposto, nel quale c’era, benché mai Chiaromonte ne abbia parlato, anche un altro elemento che contribuiva a fare di Caffi un tipo difficile da maneggiare: l’omosessualità. Quando l’omosessuale non era gay e si doveva nasondere, altro che orgoglio, altro che pride. Moravia è l’unico che nomina l’omosessualità. Benché nelle lettere che Chiaromonte e Caffi si scambiano sia chiarissima.

Racconta Moravia che Caffi “era uno straccione”. Vestiva con “pantaloni sbrindellati, giacche informi”. Moravia lo vede come “un hippy ante litteram”, un uomo dentro il quale c’era “un’anticipazione di molte cose che poi sono diventate comuni negli anni 60 e 70”. Ma noi probabilmente non avremmo saputo quasi nulla di quest’uomo se Chiaromonte non si fosse prodigato a conservarne una traccia. Caffi morì il 22 luglio del 1955. Aveva scritto tantissime schede, appunti preparatori di una storia universale delle idee, la maggior parte andate perdute nei suoi avventurosi spostamenti. Non ha lasciato nessuna opera canonica. Un libro, un editore, un titolo, niente. La sua attività intellettuale è stata fatta di conversazioni, innumerevoli lettere, incontri, amicizia, saggi sparsi qui e là, insegnamenti donati a chiunque sia stato in contatto con lui e riconosciuti come tali nell’ambiente degli esuli italiani, in quelli russi, anche negli Stati Uniti, dove Chiaromonte lo fece conoscere, invitandolo a scrivere su “Politics” con lo pseudonimo di “Europeans”.

Caffi è come un Socrate rinato a cavallo dell’Ottocento e del Novecento. La sua opera sarebbe scomparsa del tutto se Chiaromonte non avesse ripagato il debito che aveva contratto con lui dandosi da fare per pubblicare il pubblicabile dei suoi scritti tutti incompiuti e frammentari. Proprio come Platone, autore carissimo a Chiaromonte, ha fatto con Socrate. Una traccia che pochi hanno seguito. Gino Bianco, Goffredo Fofi. Marco Bresciani, più di recente, ha curato il carteggio completo tra Caffi e Chiaromonte e ha scritto un’imprescindibile biografia di Caffi basata sulle lettere, “La rivoluzione perduta”. Spesso si parla di Chiaromonte e Caffi come di figure dimenticate. Ma per essere dimenticati c’è bisogno che qualcuno, prima, ti abbia avuto in cima ai propri pensieri. Ma con Chiaromonte, e ancor più con Caffi, si tratta probabilmente d’altro: di una incompatibilità della loro cultura con la cultura italiana così come si è ufficializzata, dalla ricostruzione in poi. Per due ragioni. La prima è l’anti-totalitarismo: fascista, nazista, ma anche – e qui è il problema – comunista. La seconda, più sottile, è il rifiuto non della resistenza, ma del mito della Resistenza creato nel Dopoguerra. Le loro storie, le loro idee, le loro vite sono state messe ai margini, tenacemente, per anni. Eppure non sono state cancellate. E oggi arriva, a testimoniarle ancora, il Meridiano di Chiaromonte. Dentro cui c’è nascosto anche questo: la storia di un’amicizia invincibile, totale. Politica, intellettuale, lirica, generativa. Un’amicizia da Grecia antica, ma più avventurosa. Un romanzo.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.