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High Yield, risalita dell'Euro e dei rendimenti

Contrariamente alle attese, l’anno seguito alle elezioni di Donald Trump (8 novembre 2016) è stato per i mercati americani il più calmo in oltre mezzo secolo, con oscillazioni medie dello 0.31% al giorno. Dai dati Reuters/Financial Times, dal 1927 un solo anno ha avuto volatilità inferiore, con oscillazioni medie giornaliere dello 0.25%: quello iniziato una settimana dopo l’assassinio di John F. Kennedy, nel 1963. Mentre l’indice S&P500, a braccetto con il Nasdaq (Francoforte: 813516 - notizie) , ha continuato a toccare nuovi massimi, segnali di stress sono arrivati in altri mercati.

HIGH YIELD (HY). Negli USA, gli investitori hanno tirato i remi in barca sul settore delle obbligazioni “ad alto rendimento”, con un deflusso dai fondi HY di 6.8 miliardi di dollari, il terzo maggiore di sempre, riporta Bloomberg.

Le obbligazioni High Yield, in gergo junk bond (obbligazioni spazzatura), a fronte di maggiori rischi per il basso rating creditizio (uguale o inferiore a BB per S&P), offrono un rendimento più elevato rispetto ai titoli investment grade. Negli ultimi anni, gli HY sono stati un trade piuttosto affollato, a causa dei bassi rendimenti offerti dalle obbligazioni governative. L’attesa di un rialzo dei tassi da parte della Federal Reserve a dicembre e l’escalation di tensioni geopolitiche hanno di colpo tolto i paraocchi agli investitori. La massiccia presa di profitto sul settore HY si è tradotta in un aumento del rendimento. Tra bond High Yield e Treasury il differenziale di rendimento è salito dal 3.40% del 23 ottobre (minimi che non si vedevano dal 2014) al 3.97% di metà novembre. Nonostante ciò, oggi gli High Yield hanno rendimenti ancora vicini ai minimi storici (e prezzi sui massimi). Quei 60 punti base in più di rendimento in meno di due settimane, equivalgono a una secca tirata di redini a fronte di un’aumentata percezione del rischio. Per dare un riferimento, nel pieno della crisi petrolifera del 2016, lo spread di rendimento tra High Yield e Treasury superò l’8% e nel 2008 il 20%. I minimi di spread vennero invece toccati nell’euforia di fine anni ’90 e nel 2006-2007 quando lo spread toccò il 2.5% (ma allora i Treasury rendevano circa il doppio di oggi).

Il VENEZUELA è stato uno dei detonatori dell’innalzamento del premio al rischio. Il 13 novembre il Venezuela è stato dichiarato in default selettivo dall’agenzia S&P Global Rating, non avendo pagato cedole per 200 milioni di dollari sui bond in scadenza 2019 e 2024. Passato il “periodo di grazia” di 30 giorni, l’agenzia di rating ha abbassato la valutazione su questi bond da CC a D (default), con implicazioni negative anche per il rating a breve scadenza: il Venezuela, sostiene S&P, potrebbe mancare altri pagamenti. Di (KSE: 003160.KS - notizie) conseguenza, l’ISDA (International Swaps and Derivatives Association) ha stabilito il default per il Venezuela e per la compagnia pubblica PDVSA, facendo scattare gli obblighi di pagamento dei CDS (credit default swaps), simili a contratti di assicurazione. I venditori dei CDS dovranno pagare ai compratori dei CDS capitale e interessi. Ovviamente, i CDS sono decollati, fino a circa 15.000 punti base (150%).

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Il Venezuela, 30 milioni di abitanti, ha un debito estero di circa 150 miliardi di dollari, che include 45 miliardi di debito pubblico e 45 miliardi di debito in capo all’azienda petrolifera pubblica PDVSA. L’inflazione, al 4500% annuo, è fuori controllo. Le riserve valutarie sono evaporate. La Russia è subito intervenuta a calmierare la situazione, concordando col Venezuela una parziale ristrutturazione del debito per 3.15 miliardi di dollari che il Venezuela restituirà alla Russia in 10 anni, a condizioni molto favorevoli. Il presidente del Venezuela Nicolàs Maduro ha sollevato il problema di una ristrutturazione del debito estero in termini più ampi. Al tavolo delle trattative, oltre alla Russia, si sono già seduti Cina e Stati Uniti.

La Cina, che dal 2005 a oggi ha prestato circa 140 miliardi ai Paesi dell’America Latina (di cui metà al Venezuela), sta cogliendo il momento di debolezza del Sud America (reduce da anni difficili per le commodities e devastato dalla corruzione) come un’opportunità di espansione commerciale e politica. A partire dal 2010 si è concentrata sul Brasile, ricco di materie prime, dove nel 2017 ha fatto 17 acquisizioni, che si sommano ad altre 17 acquisizioni fatte nel 2015-2016. Oggetto di interesse sono infrastrutture, porti, aeroporti, compagnie petrolifere e telefoniche.

CINA. Giovedì, le Borse cinesi hanno avuto il peggior calo in 17 mesi, con l’indice CSI (Shanghai: 600158.SS - notizie) 300 sceso del 2.9%. Da inizio ottobre a oggi, anche il rendimento sui bond cinesi è aumentato dal 3.6% al 4%, salita ancora più impressionante se si paragona a un anno fa, quando il decennale cinese rendeva il 2.75% (un rialzo del genere negli USA sarebbe da brividi). La Cina, che viaggia a un passo del 6.8% all’anno, è cresciuta facendo lievitare il debito, oggi al 250% del prodotto interno lordo. Per arginare il debito e nello stesso tempo non rinunciare agli investimenti, il governo cinese a partire dal 2016 ha riformato il sistema fiscale, introducendo l’IVA (al 17% con moltissime deroghe e riduzioni) al posto della Business Tax, e sta irrigidendo la regolamentazione sul settore finanziario. Vuole riassorbire i rischi dello shadow banking (credito non bancario) e contenere le pratiche malsane delle istituzioni finanziarie come quella, molto in voga in Cina, di proporre investimenti con rendimenti garantiti molto più alti dei tassi di mercato, confidando di aver le spalle coperte dallo Stato.

La maggior regolamentazione in Cina, necessaria per la stabilità nel lungo periodo, rischia tuttavia di frenare una delle economie trainanti del pianeta.

D’altra parte, la Cina si sta lentamente aprendo alle istituzioni finanziari straniere. Ieri, le Borse cinesi hanno chiuso piatte. Vedremo nei prossimi giorni se il forte calo di ieri è stato una pausa fisiologica dopo un lungo rally o l’inizio di una correzione.

EMERGENTI. Il tonfo del Venezuela ha avuto immediate ripercussioni sul sentiment degli investitori verso i mercati emergenti, con sell-off generalizzati sulle relative valute, già sotto pressione per motivi contingenti. In Turchia, per il deterioramento delle relazioni fra Erdogan e gli Stati confinanti, oltre che con gli Stati Uniti, che si somma a un’inflazione all’11% e disaccordo tra la Banca Centrale che vorrebbe alzare i tassi ed Erdogan che vorrebbe invece tagliarli per stimolare l’economia. In Sudafrica, su sospette pressioni del governo Zuma dietro le dimissioni di Michael Sachs del Ministero del Tesoro. In Arabia Saudita, dopo che il principe trentaduenne Mohammed bin Salman (chiamato dagli americani con l’acronimo MBS), erede al trono saudita, ha istituito una commissione anti-corruzione, facendo arrestare 11 principi, quattro ministri in carica e decine di ministri. Il braccio di ferro sempre più impegnativo tra Arabia Saudita, sunnita, appoggiata dagli Stati Uniti e Iran, sciita, più vicino a Russia e Cina, si sta spostando dalla guerra in Yemen, scoppiata nel 2015, al Libano. La Russia di Putin si siede al tavolo dei vincitori alla fine della guerra in Siria, dopo aver contribuito in modo determinante (insieme a Stati Uniti, siriani e curdi) alla sconfitta dell’Isis, fino alla recente presa di Raqqa.

OPERATIVAMENTE E PER CONCLUDERE

L’inflazione europea scesa a 1.4% in ottobre, da 1.5% in settembre, ha servito su un piatto d’argento al presidente della BCE Mario Draghi l’opportunità di difendere il programma di stimoli monetari che la Banca Centrale Europea continuerà per almeno i primi 9 mesi del 2018 al ritmo di 30 miliardi al mese.

“L’area euro è nel mezzo di una solida espansione economica. Il prodotto interno lordo è salito per 18 trimestri consecutivi” ha detto Draghi in uno dei recenti discorsi. I dati usciti nella settimana che si è appena chiusa confermano quanto detto da Draghi, con PMI manifatturieri dell’Eurozona a 60 in novembre, massimi degli ultimi 211 mesi.

D’altro canto, i verbali dell’ultima riunione della Fed sono stati più accomodanti del previsto. Di conseguenza, l’euro si è rafforzato contro la maggior parte delle valute, nonostante tassi d’interesse ancora ai minimi storici (probabilmente fino al 2019). I dati macro sorprendentemente buoni fanno intuire che i tassi europei hanno più strada in salita che in discesa e il mercato lo sconta in anticipo comprando euro. D’altro canto, l’aumento delle tensioni geopolitiche in molte aree diverse dall’euro porta gli investitori a chiudere prudenzialmente le esposizioni in valute emergenti, a favore di valute meno redditizie, ma considerate più sicure, come euro e dollaro.

Sul cambio euro/dollaro USA, siamo compratori tra 1.13 e 1.15. Neutrali tra 1.15 e 1.20. Venditori tra 1.20 e 1.235.

Strategicamente, meglio stare in euro, ma con dei distinguo. Le valute con differenziali di tasso molto favorevoli (come lira turca, rublo russo, real brasiliano, rand sudafricano), già scese molto negli ultimi mesi, offrono delle opportunità tattiche, compensando col forte differenziale di tasso a favore eventuali ulteriori discese nei confronti dell’euro. In caso di stemperamento delle tensioni geopolitiche contingenti hanno buoni margini di rivalutazione.

Il rialzo dei rendimenti sul decennale cinese e sul settore High Yield americano suggeriscono prudenza sul settore obbligazionario, dove preferire emittenti investment grade e ridurre la duration.

Un eventuale rialzo dei rendimen Per ulteriori notizie, analisi, interviste, visita il sito di Trend Online