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L'industria della carità, quando il non profit svela il lato oscuro

I nobili scopi non bastano per rendere il terzo settore un mondo privo di difetti e limiti. Intervista a Valentina Furlanetto

L'industria della carità, Valentina Furlanetto (pp.272, 13,90 euro,Chiarelettere, 2013)

A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca, sosteneva un politico italiano di lunghissimo corso. Varrà anche per il complesso e sfaccettato mondo delle ong, delle onlus, degli enti impegnati nella cooperazione e nello sviluppo?

Forse sì, almeno leggendo il libro di Valentina Furlanetto, giornalista di Radio 24, autrice de L'industria della carità  -  Da storie e testimonianze inedite il volto nascosto delle beneficenza, edito da Chiarelettere (272 pagine, 13.90 euro). Un libro che fa molto discutere il mondo della cooperazione italiana e non solo, e che mira a denunciare i casi di mala gestione del denaro, di opacità degli obiettivi, di un eccesso di spese sul fronte della “cooperazione soffice”. Inevitabili le polemiche che hanno investito Furlanetto, in particolare sul tema della gestione finanziaria e sui rendiconti economici.

Ma l’aspetto interessante del libro è anche la rottura della visione idilliaca di un mondo dove i valori trionfano, in primis tra gli operatori: leggendo il saggio, e alcune testimonianze, si resta stupiti non solo dal tenore economico di chi compie una scelta simile, ma anche dalle condotte comportamentali, e da certi paradossi, come trovarsi in Congo mentre infuria un conflitto, ma godere di un alloggio con splendida vista sul lago Kivu e apprendere le notizie dal New York Times. Yahoo! Finanza ha intervistato Valentina Furlanetto, per approfondire e capire meglio le distorsioni di un sistema che mira a nobili scopi.


Nel libro affronta un tema di portata globale ma alcune testimonianze parlano di paradigma italiano: in cosa le distorsioni del non profit sono specchio dei mali del Paese?

"A me sembra che l’Italia del terzo settore somigli moltissimo all’Italia del profit, con tutte le sue inefficienze, gli sprechi, le contraddizioni, il familismo. Certo, se si guarda ad esempio alla politica italiana, i peccati del non profit sono meno esasperati. Parliamo di persone che si prestano, dando tempo e professionalità, per gli altri. Poi però restano i soliti vizi. La gestione del personale è simile al profit dal punto di vista del precariato, c’è una sacca di precariato molto importante; abbiamo associazioni che si battono per i diritti umani ma che non rispettano i diritti del lavoratore. All’estero i budget molto sono molti alti per i top manager del non profit, da noi no. Questi estremi mancano eppure, nel 2010, secondo un dossier realizzato dalla Siscos, l’organismo che offre le coperture assicurative per gli operatori delle ong, impegnati nelle missioni di cooperazione all’estero c’erano oltre 7000 operatori italiani, e la stragrande maggioranza, più di 6.000, con un contratto di collaborazione. Per quanto riguarda le teste pensanti, i grandi manager, c’è poca trasparenza sui guadagni ed è tabù parlare di soldi, al netto di chi, come i presidenti, lo fa a titolo gratuito".

Che altro?
"Poi il familismo, ovvero il passaggio di consegne dal fondatore carismatico alla seconda generazione, per cui a un Veronesi segue un Veronesi, a uno Strada, Gino, segue una Strada, Cecilia, così come per Agnelli e Caltagirone. Giustificano queste scelte con la trasmissione di un sistema valoriale, ma fino a un certo punto. Quando si tratta di operare e fare ricerca, devi avere le competenze. Lo stesso vale sul fronte gestionale, prendiamo il caso di Emergency: guidare una macchina di quella grandezza può essere rischioso per una persona che come dote porta soltanto il cognome. Nel caso di Emergency, parliamo di 30 milioni l’anno. L’ultimo bilancio è in rosso, per 6 milioni di euro: non che questo voglia dir niente, ma di fatto è una macchina grande, con dipendenti da tutelare, e quindi qualcuno potrà anche chiedersi se vadano riviste le regole di governance, al netto del sistema valoriale. Infine, il marketing è un ambito in cui le imprese tendono a somigliare al profit, rischiando di snaturare la loro mission".


Un ruolo gioca, a livello di controllo, l'Istituto Italiano Donazioni, che è creato dalle associazioni e che controlla le stesse: ma posto questo nodo, perché le associazioni dovrebbero creare un organo per farsi controllare se non cercano la chiarezza sui bilanci?
"Lo hanno creato perché anche in quel mondo i donatori e gli operatori si pongono il problema della trasparenza, ma è di fondo un paravento, non è un authority esterna seria in cui è assente il conflitto di interesse. È un paradosso. Quando ho scritto il saggio, nel 2012, vi aderivano una sessantina di associazioni su 240. Magari fa controlli serissimi, ma sta alla sua buona volontà. Ci vuole un meccanismo di controllo esterno. In America c’è Charity navigator, un organismo che, stabiliti i parametri, compara le associazioni ma al contempo è uno strumento anche per il donatore. Se voglio donare i soldi, ma non so a chi, posso inserire i nomi, controllare e decidere liberamente, anche di donare a chi investe molto in marketing.  Posso essere abbastanza tranquillo, perché è autorevole".

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Charity Navigator mappa anche gli stipendi dei dirigenti e dei collaboratori delle ong, in Italia non esiste uno strumento simile: ma non è anche il riflesso culturale di un Paese dove se guadagni poco sei onesto e se guadagni tanto poco limpido?
"Non ho una risposta sul tema del guadagno. Ma non credo sia così. Certo, se guadagni molto hai strumenti per crearti un immagine. Per quanto riguarda il discorso culturale, parlavo con Konstantinos Moschochoritis, direttore generale di Medici Senza Frontiere, qualche tempo fa, prima della pubblicazione del libro, e lui mi diceva: “In Italia, tutte le volte che parlo di un progetto di Msf,  i media non mi chiedono mai conto di come è andato a finire. In Inghilterra mi fanno a fette, è la prima cosa che vogliono sapere”. Come Paese, come popolo, come stampa siamo un po’ degli sprovveduti, tendiamo a fidarci o a non fidarci per nulla, che è un altro riflesso della medaglia. A me viene chiesto spesso, alle presentazioni del libro: allora non bisogna fidarsi di nessuno? No, bisogna fare distinzioni, come per tutte le cose. Non bisogna usare il mio libro come una clava, ma come lente di ingrandimento, e non considerare i buoni tutti buoni o i cattivi tutti cattivi. C’è una tendenza al buonismo: se fai del bene, comunque fai bene. Magari fai del bene, non ci sono opacità, la scuola l’hai costruita sul serio, ma poi non le strade non ci sono e allora che serve fare la scuola? C’è un rapporto della Corte dei Conti del 2012, di luglio, che parla di 28 progetti con gravi irregolarità su 80, e sono irregolarità anche di questo tipo: spendi tot, hai costruito l’ospedale, ma non ci sono i medici o gli strumenti. A chi serve? Ai donatori, ai beneficiari? A volte c’è malafede, altre volte c’è inefficienza".



Qual è, a suo parere, un modello di “casa di vetro” del non profit italiano?
"Non mi va di schierarmi, non avendo interessi in merito. Mi è piaciuto molto quando, dopo lo tsunami, Medici senza Frontiere ha chiesto ai donatori se volevano indietro i soldi avanzati. Mi piace molto One Sight, la fondazione di Luxottica, che fa beneficenza nel suo segmento, quello dell’oculistica, ma senza farlo sapere. Il panorama non è disastroso, è giusto sottolineare cose positive, ma un’inchiesta non può essere su quello. Potrei citare Cesvi, sono medio-piccoli, hanno un bel bilancio, fanno belle cose; c’è l’Ai.Bi,  l'ente per le adozioni internazionali rigoroso.  Mi sento di dire che la spinta emozionale dell’opinione pubblica, sul tema delle adozioni, fa danni, e magari certi enti ti portano ad adottare dove ci sono meno paletti. La spinta emozionale io la capisco umanamente, è uno scandalo che ci si metta 4 anni, da genitore lo comprendo, da cittadino anche no".


Se un'emergenza dura 40 anni qualcosa non va, afferma uno degli operatori che cita nel libro. Quali sono le emergenze che rischiano di diventare il nuovo Sahel?

"Sicuramente, Haiti lo è già, è una repubblica delle ong. Complice anche la debolezza del governo locale, le associazioni sono ormai stanziate e condizionano anche i processi economici, creando una dipendenza dall’aiuto, poiché nell'assistenza si trova lavoro, si trova il cibo, e a lungo andare si genera un corto circuito. C’è poi l’Africa, penso al Ruanda, a situazioni delicate che, in buona fede, sono state peggiorate dalla presenza delle associazioni. L’Africa è un continente in cui l’aiuto è stato tante volte utilizzato dai dittatori per rifocillare la popolazione mentre loro si armavano".


Nel libro scrive che l'impegno nel non profit è una delle poche cose che accomuna la generazione post muro di Berlino. Il mondo è in evoluzione, si parla molto di decrescita. Come crede che le nuove sensibilità ideologiche possano mutare lo scenario del non profit?

"Non credo alla decrescita, e la trovo molto ideologica, un’idea bella ma solo in teoria. Certo, l’ondata attuale, ad esempio quella grillina, mette in discussione i privilegi, anche quelli della casta politica. Allo stesso modo mi auguro che altri privilegi concessi al non profit trovino uno tsunami dall’interno che porti pulizia".