Annuncio pubblicitario
Italia markets open in 3 hours 20 minutes
  • Dow Jones

    38.085,80
    -375,12 (-0,98%)
     
  • Nasdaq

    15.611,76
    -100,99 (-0,64%)
     
  • Nikkei 225

    37.780,35
    +151,87 (+0,40%)
     
  • EUR/USD

    1,0723
    -0,0010 (-0,10%)
     
  • Bitcoin EUR

    60.050,98
    -22,46 (-0,04%)
     
  • CMC Crypto 200

    1.391,44
    +8,87 (+0,64%)
     
  • HANG SENG

    17.625,19
    +340,65 (+1,97%)
     
  • S&P 500

    5.048,42
    -23,21 (-0,46%)
     

Meno tasse sul lavoro, cambia l'Iva. Accenni di riforma fiscale a costo (quasi) zero

Il ministro dell'Economia Daniele Franco e il premier Mario Draghi (Photo: MAURIZIO BRAMBATTIANSA)
Il ministro dell'Economia Daniele Franco e il premier Mario Draghi (Photo: MAURIZIO BRAMBATTIANSA)

Se si prendono in considerazione solo i passaggi relativi ai contenuti, quello che viene fuori dall’audizione del ministro dell’Economia in Parlamento è sicuramente utile per capire la direzione che il Governo sta per intraprendere sulla riforma del fisco. La priorità è tagliare le tasse sul lavoro, non ci sarà la patrimoniale e l’Irap, l’imposta regionale che grava sulle attività produttive, sarà cestinata. Ma la logica di rincorrere il tiro definitivo degli interventi è un esercizio fuorviante. Non solo perché una riforma che ambisce a essere “ampia e organica” necessita di un consenso altrettanto largo e quindi di una trattativa inevitabile dentro una maggioranza variegata. Insomma per ora ci si può fermare solo ai titoli. La vera questione che sottende a questo impegno è il principio di realtà che non si traduce nei singoli appetiti dei partiti, ma in una consapevolezza a cui la politica è disabituata da quasi trent’anni, dai tempi delle promesse di Silvio Berlusconi. Questa consapevolezza dice che la riforma sarà graduale, quindi lunga nel tempo, perché servono i soldi per finanziarla.

Quello delle coperture è un problema che ha interessato sempre tutti i governi. Ne sa qualcosa Matteo Renzi che dovette trovare 10 miliardi per coprire i costi del bonus 80 euro. Fu un’operazione significativa dal punto di vista delle finanze pubbliche, una delle poche sopravvissute, ma è stato pur sempre un pezzo di riforma. Quello che Mario Draghi è chiamato a fare è invece molto di più. Una riforma organica, capace di intervenire in più ambiti, perché questa è la condizione politica che sottende al patto con Bruxelles per ricevere i 248 miliardi del Recovery. Non solo. È anche il tentativo di superare la logica delle bandierine e di dotare l’Italia di un sistema fiscale più ampio e auspicabilmente più equo, soprattutto capace di durare nel tempo. Non è un ragionamento legato alla megalomania del governo dei migliori, ma una necessità del Paese perché il problema delle tasse onerose riguarda un po’ tutti, dal lavoratore dipendente alle partite Iva, e intacca più ambiti, non solo quello che ha a che fare con il lavoro.

L’obiettivo, audace quanto complesso, è archiviare le stagioni del consenso che hanno caratterizzato buona parte degli interventi degli ultimi governi, quando il tema delle tasse ha viaggiato di pari passo con l’elettorato di riferimento da coccolare. E questo scenario è anche quello attuale perché dalla patrimoniale di Enrico Letta alla flat tax di Matteo Salvini, i partiti sono ancora legati ai rispettivi mondi di riferimento, il che non è un male assoluto in sé, ma quello che il Paese è riuscito a mettere in fila negli ultimi anni seguendo questa impostazione è stato un aggiustamento del fisco a blocchi. Non tutti hanno beneficiato allo stesso modo degli interventi che hanno provato a ridurre il carico fiscale, non tutti sono stati oggetto neppure delle promesse della politica.

ANNUNCIO PUBBLICITARIO

Si arriva così al principio di realtà espresso da Franco davanti ai deputati e ai senatori delle commissioni Finanze. “Non possiamo mettere a rischio la tenuta dei conti pubblici, in particolare in questa fase”, ha detto il ministro per spiegare perché la riforma del fisco sarà light dal punto di vista delle risorse che saranno stanziate, almeno all’inizio. Le ragioni sono quelle strutturali, a iniziare dai 900 miliardi di spesa pubblica da coprire ogni anno. Più di 500 di questi 900 miliardi arrivano dalle imposte. Ancora un debito pubblico al 160% del Pil. La somma di queste ragioni dice che non si può finanziare una riforma con il deficit. Anche per questioni più attuali, che rischiano di aggravare il quadro dei conti pubblici. L’imprevedibilità della variante Delta potrebbe implicare un nuovo ricorso al deficit per finanziare altri aiuti anti Covid. Ci sono gli impegni di spesa per “le trasformazioni strutturali della sanità”.

La traduzione del principio di realtà è una dote estremamente ridotta per partire: 2-3 miliardi che arriveranno con la legge di bilancio in autunno. Pochissimo per interventi strutturali e per questo il ministro dell’Economia ha parlato di misure iniziali “senza costi”. L’orizzonte dell’impiego delle risorse per la riforma del fisco e quindi dei singoli interventi è dilatato, impatterà - ha spiegato sempre Franco - “nell’ambito delle prossime sessioni di bilancio”. A prevalere è la logica del passo dopo passo: man mano che ci saranno soldi a disposizione si potrà ampliare la portata della riforma. Questi soldi sono previsti in arrivo dalla lotta all’evasione fiscale e dalla spending review, bacini che non contemplano previsioni di incasso sicure. I 5 stelle respingono già quella che definiscono il ritorno dell’austerità, ma la revisione della spesa pubblica è di fatto l’unico strumento che può garantire risorse tali per tagliare le tasse in modo organico. Oltre a essere un’operazione delicata e difficile per la politica, tagliare la spesa si traduce in uno svantaggio per chi è interessato dall’accetta. Ma l’alternativa, cioè coprire i costi della riforma con il deficit, significa stressare ulteriormente i conti e a cascata la condizione economica dei cittadini.

La coda dei pochi soldi a disposizione è l’impossibilità di definire subito i margini di intervento. Ma alcune linee guida ci sono già. Non ci sarà la patrimoniale, meglio una nuova forma della tassazione sulle grandi ricchezze, e questo perché il Governo ritiene sufficiente quella già in vigore. Via l’Irap, mentre l’Iva sarà oggetto a una revisione. La linea indicata dal Parlamento è quella della semplificazione e di una riduzione dell’aliquota ordinaria. Franco ha aperto anche a un intervento anche sulle aliquote ridotte. Una delle ipotesi è tenere ferme le quattro aliquote (4%, 5%, 10% e 22%), ma mescolare i beni al loro interno: qualcuno potrebbe avere un’Iva maggiorata, qualcun altro ridotta. In ogni caso l’operazione sarà portata avanti a “parità di gettito”: gli eventuali aumenti saranno compensati da altrettante riduzioni. Sul fronte dell’Irpef una strada potrebbe essere quella dell’applicazione del modello tedesco ma solo sulle aliquote marginali, garantendo quindi una maggiore progressività su quella parte delle tasse che si pagano sulla parte eccedente rispetto allo scaglione di riferimento. Insomma accenni di riforma, che tra l’altro sarà sul tavolo del Consiglio dei ministri a inizio agosto, non entro fine luglio come previsto nella road map del Recovery. Uno slittamento di qualche giorno, annunciato da Draghi, che non cambia però il senso del disegno di legge delega che aprirà il gran valzer delle tasse.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.