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"Il male dell'Italia? I politici nelle banche"

Le scelte economiche che hanno portato alla crisi. Intervista a Eugenio Benetazzo

Eugenio Benetazzo, Neurolandia (Chiarelettere)

“Altro che commissariamento interno. L’Italia ha bisogno di un super commissariamento esterno. E subito. Da dentro non riusciremo mai a salvarci”. Nessuna provocazione: è il pensiero dissacrante, condito di realismo all’ennesima potenza, dell’economista Eugenio Benetazzo. Considerato da molti un guru finanziario, Benetazzo è autore di Neurolandia per i tipi di Chiarelettere: un volume agile, in cui si sente la sua voce più autentica, spesso fuori dal coro.

Il testo, realizzato con l’amico giornalista Gianluca Versace, rivela in modo netto la fotografia dello scenario macroeconomico italiano. L’autore torna così con un volume che fa scalpore, e che arriva dopo molte pubblicazioni, tra cui il best seller economico controcorrente Duri e puri, in cui aveva previsto con largo anticipo la crisi del 2008-2009.

Nel libro emergono i mali peggiori dell’Italia, a partire dalla politica degli impreparati che ha condizionato le scelte economiche. Il suo giudizio è molto duro.
“E’ un dato di fatto: c’è stata una miopia clamorosa. Fin all’inizio del 2011 prevaleva la visione ottimistica, si ipotizzava che il peggio fosse alle nostre spalle”.

L’estate 2011 è quella di cui paghiamo le conseguenze che, scrive, ha “condotto al commissariamento plateale, sfacciato, persino ostentato dello Stato Italia”. E’ in quei mesi che ha avuto inizio il declino?
“Anche quando abbiamo subito l’aggressione nei confronti del Governo italiano, pesantemente scaricato dagli operatori istituzionali a fronte di un processo di revisione di portafoglio, ci sono stati molti problemi: questo ha generato un’isteria finanziaria che ha portato alle dimissioni di Berlusconi. Tremonti in Europa era percepito come un garante, un soggetto gradito e referenziato. Da quando è uscito di scena l’Italia ha avuto un outlook negativo. Ma il problema risale all’introduzione dell’euro: è stata gestita male”.

I tempi per introdurre la moneta unica non erano maturi?
“Si sono sovrastimati i benefici della moneta unica, non è stata prevista una exit strategy. Nessuno poteva garantire che tutto sarebbe andato bene, non c’è stata una visione adeguata. Certo, adesso fa comodo puntare il dito contro l’euro, quello che è percepito come il male assoluto. In realtà la moneta unica ha fatto più bene che male. E’ il processo che è stato gestito in modo errato: non si è tenuto conto della perdita di potere di acquisto, arrivata anche per un mancato controllo sulla mancata lievitazione degli interessi. Io vivo tra l’Italia e Malta. Pensi che qui ancora oggi gli scontrini contengono l’indicazione della vecchia moneta”.

C’è chi invoca un ritorno alla lira. Pensa che sia una strada percorribile?
“E’ altamente improbabile tornare alla lira. Azzereremmo gli sforzi di 15 anni. La moneta non è una questione solo italiana, né europea. Ci sono forze fuori alla Ue che spingono affinché l’euro continui ad esistere in quanto alternativa al dollaro. Anche per questo la via da percorrere è un’altra: arrivare agli Stati Uniti d’Europa. Se per emergenza si decidesse di stampare moneta come un evento  sporadico e occasionale se ne può parlare, ma se diventa sistematico significa creare le premesse per distruggere l’intero Paese. Accadrebbe quello che è successo all’Argentina”.

Quali sono le scelte economiche, a suo avviso, che aiuterebbero l’Italia?
“E’ necessario ridefinire la spesa pubblica nel settore sanitario, rivedere la pressione fiscale. E’ essenziale avere una giustizia efficiente, un Paese capace di creare meritocrazia nel settore pubblico, penalizzandolo o incentivandolo attraverso parametri di performance. Non è difficile: il contribuente esprime un giudizio, è parte attiva. Ma non fa comodo alle lobby e la mancanza di trasversalità in politica fa la sua parte. Sono tutti impegnati a cercare voti, non soluzioni per l’Italia”.

Per l’Europa quanto conta l’Italia?
“Molto. L’Italia non verrà lascata a se stessa: significherebbe compromettere l’intera Unione europea. Mario Draghi è una persona in gamba. La Bce farà quello che può per salvarla. Non deve fallire il sistema. Chi lo dice è perché non ha alcun risparmio o è privo di responsabilità sociale. Le ripercussioni sarebbero devastanti”.


La soluzione del governo tecnico di Monti per alcuni ha portato dei benefici, per molti ha peggiorato le cose. Lei critica aspramente il suo operato. Dove ha sbagliato?
“E’ stato un grande fallimento. Monti doveva essere una figura tecnica ma dopo due settimane si era uniformato al modo di fare italiano: tavoli su tavoli di concertazione, incontri politici. E' diventato il solito portavoce di tutte le lobby. Invece, anche con le banche, serviva un altro approccio”.

Una proposta per gestire i rapporti con i cosiddetti “poteri forti”?
“E’ necessario commissariare le quote di proprietà nei gradi gruppi bancari detenute dalle Fondazioni. Le Fondazioni bancarie sono organi di controllo di derivazione parapolitica. Le banche non sono gestite da esperti ma da politici o da persone prestate dalla politica. Serve almeno un istituto nazionale che possa essere controllato dal Governo, per una politica di gestone del credito che passi per finalità internazionali. Ora vengono attuate politiche accondiscendenti nei confronti degli azionisti”.

Di politici in grado di fare la differenza non sembra ce ne siano molti.
“No. Devo dire che ci ha provato in parte il movimento di Giannino, “Fare per fermare il declino”. Su alcuni punti le idee erano chiare, su altri meno. Ma è stato un flop. Pensi, c’è un esercito di 3.800.000 tra dipendenti statali e parastatali intoccabili: andare a parlare di loro, di quella fetta, sarebbe come svegliare il cane che dorme. I politici non lo fanno per paura di ripercussioni sul consenso elettorale. E gli operatori, gli economisti, i professionisti, sono tenuti lontano dalla politica proprio per questo. Si preferisce un referente economico di un partito fidato, rispetto a uno capace”.