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Torna in scena lo scontro sul debito greco

Fondo monetario e paesi europei litigano di nuovo sul piano di finanziamenti alla Grecia. È molto probabile che anche questa volta si arriverà a un accordo. Ma l’esperienza del salvataggio greco dovrebbe convincere l’Europa a rafforzare le proprie istituzioni per affrontare un futuro non semplice.

Dalla tragedia alla telenovela

Più che di tragedia greca, sarebbe meglio parlare di telenovela. Mi riferisco all’ultima impasse nell’erogazione di finanziamenti alla Grecia da parte dei paesi europei nel contesto del terzo bail-out del 2015. Come solo pochi mesi fa, il motivo del contendere è sempre lo stesso. I paesi europei, in primo luogo la Germania, ritengono condizione necessaria la partecipazione del Fondo monetario internazionale, oltre all’approvazione di una serie di riforme strutturali.

Solo la partecipazione del Fondo, secondo questi paesi, può garantire controlli adeguati. Per la Germania, il rischio è chele verifiche siano affidate invece alla Commissione europea, dove i falchi delle riforme sarebbero in minoranza. Per parte sua, il Fondo ritiene irrealistiche sia le condizioni poste dai paesi europei in termini di surplus di bilancio futuri, sia le stime di crescita e fabbisogno. In breve, vorrebbe un accordo che, in cambio di un sostanziale taglio del debito nei confronti dei paesi europei, vedrebbe la Grecia impegnarsi con ancora più decisione nelle riforme strutturali, con l’approvazione immediata di una serie di “clausole di salvaguardia” e provvedimenti che diventerebbero operativi nel momento stesso di chiusura del piano di bail-out.

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L’esito più probabile è un accordo a metà strada tra le posizioni di Fondo e dei paesi europei. Dopo tutto, le distanze non sono molto grandi. Ad esempio, il Fondo ritiene credibili surplus di bilancio pari all’1,5 per cento del Pil, contro il 3,5 per cento dei paesi europei. E, se le distanze in tema di riduzione del debito sono maggiori, è pur vero che quest’ultimo deve essere ripagato solo tra molti anni. A spingere verso un accordo è anche il timore che la “questione greca” irrompa nel dibattito politico della lunga stagione elettorale che si sta per aprire in Europa.

Una riforma strutturale per l’Europa

Se l’esito più probabile è quindi positivo, l’evoluzione della “telenovela” greca è l’occasione per alcune riflessioni.

In primo luogo, seppure spesso bistrattato, l’euro ha un valore anche per i partiti che lo criticano aspramente. Syriza è stata a un passo dal portare la Grecia fuori dell’area euro, godendo di un ampio appoggio popolare ottenuto con il voto del referendum del luglio 2015. Tuttavia, ha preferito la giravolta politica e la difficile strada delle riforme e della svalutazione interna perché i costi, soprattutto in termini di stabilità del sistema bancario e garanzia di accesso al mercato dei capitali, sono maggiori dei benefici. Chi in Italia favoleggia dei benefici di un ritorno alla lira dovrebbe riflettere.

Secondo, le riforme strutturali sono l’unica via per una crescita sostenibile. Chi sostiene il contrario vende fumo. Tuttavia, le riforme dispiegano i propri effetti su un orizzonte di tempo medio-lungo, mentre nel breve hanno importanti effetti redistributivi che comportano costi per alcune categorie di cittadini. Perché le riforme abbiano un appoggio popolare, non devono lasciare troppi cittadini in difficoltà e devono essere introdotte in maniera graduale, ma con impegni credibili e difficilmente violabili. Ad esempio, oggi la Grecia utilizza circa l’11 per cento del Pil per coprire il disavanzo annuale del sistema pensionistico, contro il 2,5 per cento circa dei paesi dell’Eurozona. Se questi numeri spiegano perché i paesi europei chiedono maggiore incisività nella riforma delle pensioni, è anche comprensibile la difficoltà del governo greco che deve gestire un sistema ereditato da un passato scriteriato e con pensioni medie comunque molto basse.

Terzo, il Fondo monetario dei prossimi anni sarà sempre meno euro-centrico. Da un lato, è probabile che l’amministrazione Trump spinga per un disimpegno degli Stati Uniti. Dall’altro, cresce il peso dei paesi emergenti e della Cina.

L’Europa deve perciò imparare a risolvere al suo interno i problemi della Grecia, ma anche quelli delle sue banche, dei debiti pubblici nazionali o dei flussi migratori, con una profonda riforma delle sue istituzioni. Il passaggio sarà difficile e offrirà il fianco ai movimenti populisti che puntano ad aumentare il proprio consenso al costo di minare le fondamenta dell’Unione.

Quanto all’attuale impasse sui finanziamenti alla Grecia, è giusto quindi concludere con “molto rumore per nulla”? Forse sì, ma come Europa dobbiamo sicuramente imparare da quanto accaduto in Grecia, per rafforzare le nostre istituzioni e intraprendere quelle riforme strutturali che devono garantire una maggiore, e più inclusiva, crescita non solo in Grecia, ma anche nel resto del continente.

Di Nicola Borri

Autore: La Voce Per ulteriori notizie, analisi, interviste, visita il sito di Trend Online