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E' ufficiale: l'Arabia Saudita lascia il petrolio

L’Arabia Saudita aveva gettato il guanto di sfida agli Usa per quella che sarebbe stata (ed è tuttora) la guerra tra Ryad e Washington sui prezzi del petrolio.

Da cosa nasce tutto questo?

Gli Usa, dopo la rivoluzione dello shale oil, furono accusati di essere diventati concorrenti sleali che riversavano sul mercato milioni di barili di greggio danneggiando gli introiti della monarchia saudita. Da qui la decisione degli sceicchi di non tagliare la produzione per evitare che le nicchie abbandonate dalle nazioni dell’Opec potessero essere occupate dai nuovi, grandi produttori di oro nero senza che se ne avvantaggiassero le quotazioni. Con ovvio, duplice danno per l’Arabia Saudita e tutte le altre nazioni del cartello. Ma alla lunga la situazione si è evoluta in maniera tale che a rimetterci, adesso, sono anche coloro che hanno dato inizio alla guerra e che, forti di costi di produzione molto bassi, potevano reggere un gioco in perdita anche per lungo periodo.

I provvedimenti contro la crisi del petrolio

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Ad ogni modo, per evitare di rischiare troppo, da qualche tempo la nazione degli sceicchi ha deciso di prendere alcuni provvedimenti per alleggerire il peso delle inevitabili perdite e del deficit sui conti di stato, deficit nato in seguito al fatto che proprio il greggio è la prima risorsa della nazione. Oltre alle misure di austerity, le prime nella storia, ad alcuni rialzi sui carburanti (impossibile tassare gli alcolici la cui vendita, in un paese musulmano è ufficialmente vietata) e oltre al varo del primo bond statale (tutte misure da record dal momento che mai erano state attuate finora) nei giorni scorsi è arrivata la conferma anche di una serie di privatizzazioni, la più eclatante delle quali sarebbe la vendita del 5% di Aramco ovvero il gigante petrolifero statale. Ma non è la sola iniziativa.

Alla base di questo c’è la volontà di creare il fondo sovrano più grande del mondo, la cui disponibilità, secondo le dichiarazioni ufficiali, dovrebbe arrivare a oltre 2mila miliardi di dollari e controllare circa il 10% delle potenzialità di investimento nel mondo; il tutto per riuscire ad affrancarsi da quel 70% di dipendenza dal petrolio che ha creato, dopo la crisi, un vero e proprio stop del Pil il quale dal +3,4% del 2015 quest’anno dovrebbe arrivare a stento a +1,2%. Una volontà che ha portato il governo del Paese a dar vita a Vision 2030, un piano di investimenti che permetterà alla nazione di vivere senza petrolio già entro il 2020. Per arrivare a questo la monarchia ha già incentivato stanziamenti sulle energie rinnovabili e spinto per ampliare il portafoglio di investimenti in generale da qui al 2030. Aria di rinnovamento ma soprattutto aria di apertura al mondo anche per un altro motivo: come è facile immaginare, la quotazione di Aramco, seppur in percentuale minima, obbliga la monarchia a rendere pubblici i quantitativi delle sue riserve, dato che è stato sempre tenuto segreto per evitare impatti diretti sul settore, il quale, come detto, sta da tempo affrontando una situazione di forti oscillazioni.

Cosa significa tutto questo?

A prescindere dai particolari tecnici è indubbio il fatto che tutto quanto sta facendo l’Arabia Saudita ha anche un altro significato, non certo recondito e cioè quello di far capire al mondo che le quotazioni del greggio resteranno basse ancora a lungo, non per niente il primo a muoversi è il gigante da sempre leader del settore e che, a differenza della maggior parte degli altri competitors può sfruttare un costo di produzione bassissimo e quindi riuscire a guadagnare anche con un barile intorno ai 30 dollari. Inoltre all’orizzonte, un orizzonte nemmeno tanto lontano, si è defilato un altro protagonista: l’Iran. Temibile perchè affamato e ambizioso dopo i decenni di sanzioni e tensioni con l’occidente, adesso Teheran è ritornata sul mercato del greggio e non ha intenzione di collaborare a nessun progetto di limitazione dell’output, attualmente ai livelli massimi dal 2012. Anche per questo Ryad sta potenziando la sua capacità finanziaria aumentando, tra le altre cose, anche la presenza di privati nel suo panorama finanziario: dall’attuale 40% al prossimo 60% per riuscire a costruire un tappeto dinamico per un’economia più internazionale favorendo al contempo sia le rendite derivanti da settori diverso dal petrolifero, sia un calo della disoccupazione, attualmente all’11%.

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