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Perché i derivati restano una mina vagante

I derivati nei bilanci delle grandi banche europee, soprattutto tedesche, rimangono un problema. Perché sono tanti rispetto al capitale e perché sono molto opachi. Richiamano scenari già visti nel 2008 negli Usa. La gestione della supervisione bancaria europea e la costruzione degli stress test.

Dai mutui subprime ai titoli tossici

Dopo le dichiarazioni di Matteo Renzi sul rischio derivati, in particolare nelle banche tedesche, Nicola Borri ha osservato, a proposito di Deutsche Bank (Londra: 0H7D.L - notizie) , che l’esposizione nominale non corrisponde a quella di valore di mercato (“fair value”). Ma ci sono altri numeri che avvalorano le preoccupazioni del presidente del Consiglio e spiegano perché i mercati puniscano la maggiore banca tedesca. A un convegno del 2010, Eli Remolona, economista della Bis (Banca dei regolamenti internazionali) affermò che nella crisi dei “subprime” le perdite causate direttamente dai mutui (persone che avevano smesso di pagare le rate) erano state di 500 miliardi, mentre le perdite da valutazione dei titoli raggiungevano i 4mila miliardi. Gran parte dei fallimenti bancari nella crisi subprime furono dovuti a crolli nel valore dei titoli più che a prestiti non rimborsati (le nostre sofferenze o Npl).

Un fenomeno nuovo, tipico di quella crisi, è stata infatti la comparsa di un rischio di tipo contabile per prodotti finanziari complessi la cui diffusione aveva accompagnato il finanziamento dei mutui offerti alla clientela con le operazioni di “cartolarizzazione”. Erano i cosiddetti titoli “tossici”, di difficile valutazione perché includevano prodotti derivati riferiti ai mutui, sui quali non era possibile disporre di informazioni. Il rischio contabile si materializzava nel fatto che se anche poche banche erano costrette a vendere a prezzi di saldo questi prodotti finanziari, per il nuovo meccanismo di contabilizzazione al “fair value” la stessa perdita di valore si trasmetteva ai libri di altri istituti che pure non avevano nessuna necessità di liquidare quelle attività finanziarie. Fu questo meccanismo di contagio contabile a propagare le perdite tra le banche ben oltre quelle originate da famiglie che non avevano rimborsato i mutui. Il fatto che la crisi si sia arrestata quando le regole contabili sono state sospese e che i contribuenti americani abbiano alla fine guadagnato dal piano Tarp Troubled Assets Relief Program di Barack Obama, basato sull’acquisto da parte del Tesoro dei prodotti a prezzi di saldo, ne sono una conferma.

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L’opacità di Deutsche Bank

Per quanto riguarda l’Europa e Deutsche Bank, vale la pena ricordare che il sistema contabile è ancora lo stesso della crisi del 2008, e che quando si parla di rischio “derivati” in generale ci si riferisce più ai derivati incorporati in quei prodotti strutturati noti come “titoli tossici” (o titoli di livello 3 nella terminologia contabile) che non ai derivati da libro di testo. Nel (Londra: 0E4Q.L - notizie) bilancio di Deutsche Bank ce ne sono ancora per 31 miliardi. Se derivati e titoli di livello tre non avessero sovrapposizioni, aggiungendo questi dati a quelli indicati da Nicola Borri si arriva a 50 miliardi, circa il 95 per cento del suo capitale regolamentare (Cet1). Se il valore contabile crollasse di circa il 35 per cento, come è successo nella crisi dei subprime, il valore del Cet1 si ridurrebbe di un quinto. Se per un cambiamento delle condizioni di mercato il valore dei 19 miliardi di derivati si azzerasse, porterebbe via con sé più di un terzo del capitale. Anche un dato tecnico segnala il grado di opacità dei contratti derivati e dei titoli tossici di Deutsche Bank. Per far fronte a questo tipo di rischio di tipo contabile, è entrata in vigore una nuova regolamentazione, chiamata “prudent valuation”.

A partire dal 2015, i grandi gruppi bancari europei sono chiamati a quantificare il rischio che deriva da una valutazione contabile poco prudente di prodotti opachi – come i titoli tossici e i derivati – e accantonare a capitale la somma corrispondente. Nel suo bilancio 2015 Deutsche Bank ha accantonato la somma più alta in percentuale del capitale, quasi il 3,5 per cento del Cet1. Per le banche italiane lo stesso dato è in genere intorno allo 0,35 per cento, solo Unicredit (EUREX: DE000A163206.EX - notizie) arriva allo 0,5 per cento. I derivati nelle grandi banche europee, soprattutto tedesche, e in particolare in Deutsche Bank, sono davvero un problema. Sono un problema perché sono tanti rispetto al capitale e perché sono i più opachi. Borri ha ragione quando scrive che tutto ciò non può alleviare gli errori, se non addirittura i crimini, commessi dal sistema bancario italiano nel collocamento dei titoli bancari subordinati (che peraltro sono tecnicamente essi stessi titoli che contengono derivati). Ma ben al di là delle querelle tra i singoli paesi, il problema dei derivati rimanda alla questione di come viene gestita la supervisione bancaria a livello europeo e a come è stato costruito l’esercizio di “stress test” che l’ha inaugurata. In uno scenario di stress in cui il rapporto tra perdite per rischio di credito e perdite da valutazione titoli fosse di 1 a 8, Deutsche Bank non avrebbe scampo. Ed è uno scenario che si è già verificato negli Stati Uniti, tra il 2008 e il 2010, secondo i numeri di Remolona.

Di Umberto Cherubini

Autore: La Voce Per ulteriori notizie, analisi, interviste, visita il sito di Trend Online