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Tassi Usa: rialzo o no, cosa cambia per noi?

A giudicare dalla volatilità che ha caratterizzato i mercati nelle ultime settimane, sono in pochi ad avere le idee chiare sulla direzione che prenderà la prossima riunione della Fed, in programma il 17 settembre. Molti esperti si attendono che in quell'occasione la banca centrale americana porrà fine dopo sette anni alla stagione dei tassi zero per iniziare il processo di normalizzazione, in modo da evitare il formarsi di altre bolle. Parecchio numerosa è, però, la schiera degli analisti ritengono più probabile un nulla di fatto (con rinvio del rialzo al 2016), dettato dal timore che un movimento sui tassi possa portare ulteriore instabilità all'economia mondiale. Considerato che già i fattori di tensione non mancano, tra la crisi finanziaria in Cina, la crescita anemica dell'Europa e delle guerre sparse per il mondo.

Perché sì
A rigor di logica, il rialzo dei tassi sembra scontato. L'economia americana ha ripreso da tempo a marciare a pieno regime (+3,7% l'andamento nel secondo trimestre), l'occupazione continua a crescere di mese in mese (15 milioni di posti di lavoro creati negli ultimi cinque anni, tanto da arrivare ad appena il 5,3% di disoccupati), avvicinando il rischio di pressioni inflattive e c'è il rischio concreto che, in caso contrario, l'abbondante liquidità messa in circolo dalla stessa Fed possa portare al formarsi di bolle speculative. Che, come si vede in questi giorni in Cina, prima o poi sono destinate a scoppiare con danni enormi per l'economia reale. Ma le ragioni non finiscono qui: nelle ultime settimane, la presidente Janet Yellen si è più volte soffermata sulla necessità di stabilizzare i tassi, preparando di fatto il mercato al primo rialzo. Arrivare all'appuntamento cruciale del 17 settembre e cambiare idea, rischia di appannare la credibilità dell'istituzione. Non solo: con i tassi a zero, non ci sarebbero munizioni per combattere nuove crisi, che non possono essere escluse a priori. Quindi l'aumento, magari di un quarto di punto o di mezzo, potrebbero quanto meno costituire una riserva pronta a essere attivata in caso di emergenza. Infine va considerato il dato politico: tra un anno vi saranno le elezioni presidenziali negli Stati Uniti ed è consigliabile rinviare il processo di normalizzazione dei tassi troppo vicino a questa scadenza per evitare che si produca instabilità.

Perché no
Non mancano le ragioni perché, alla fine, la Yellen rimandi ogni decisione, magari al nuovo anno. Innanzitutto vanno considerate le ripercussioni che il rialzo avrebbe sulle valute: verosimilmente il dollaro si rafforzerebbe ulteriormente, penalizzando quindi l'export made in Usa. In secondo luogo, crescerebbe il rendimento dei titoli di Stato americane e questo sposterebbe investimenti enormi dai mercati emergenti verso i ben più affidabili Stati Uniti. A cascata, secondo quanto si è più volte visto in passato in situazioni simili, quei Paesi rischierebbero di vivere una fase di profonda instabilità. Nei giorni scorsi il Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato una nota per sottolineare questi rischi, ricordando alla Fed che al momento non esistono pressioni inflazionistiche tali da suggerire una stretta monetaria.

Cosa cambia per noi
Per quanto riguarda gli investitori e i risparmiatori italiani, le mosse della Fed sono destinate ad assumere dimensioni rilevanti. Un rialzo dei tassi americani, con la sua spinta al dollaro, potrebbe favorire le aziende italiane impegnate sul fronte dell'export. Al tempo stesso renderebbe più interessante l'investimento nei Treasury. Il tutto a patto che non si venga a produrre una nuova crisi finanziaria globale.