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Ilva di Taranto e diritti negati: quando si sceglie tra salute e lavoro

La vicenda dell'Ilva di Taranto è particolarmente dolorosa, disperata e per molti versi emblema dell'Italia.
Il gip di Taranto, Patrizia Todisco, ha firmato il provvedimento di sequestro senza facoltà d’uso, degli impianti dell’area a caldo dello stabilimento siderurgico, nell'ambito dell'inchiesta sull'inquinamento coordinata dalla Procura di Taranto, in cui si accusano alcuni responsabili dell'azienda dei reati di disastro ambientale colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose e inquinamento atmosferico (sono attualmente otto i dirigenti per i quali sono stati disposti gli arresti domiciliari). Nel particolare, le parti interessate dal provvedimento e in cui quindi sono state sospese le attività sono: parchi minerari, cockeria, agglomerati, altoforni, acciaieria e gestione dei rottami ferrosi.

Al diffondersi della notizia, i dipendenti dello stabilimento si sono mobilitati e hanno organizzato manifestazioni e blocchi del traffico per richiamare l'attenzione su una vicenda che rischia di mettere in crisi decine di migliaia di famiglie.

Il dilemma è tragico, perché i due valori che sembrano fronteggiarsi sono la salute e il lavoro. Infatti, se da un lato c'è il dramma dei circa 11mila lavoratori che rischiano di perdere il proprio posto (senza considerare tutto l'indotto), dall'altro c'è l'emergenza sanitaria e ambientale. Secondo gli esperti che hanno redatto la perizia medico-epidemiologica sulla base della quale è stato disposto il sequestro, infatti: "l’esposizione continuata agli inquinanti dell’atmosfera emessi dall’impianto ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell’organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte".

Il governo ha approvato un "Protocollo d'intesa per la riqualificazione ambientale dell'area", che prevede interventi strutturali di bonifica, incentivi alle imprese locali e la riqualificazione industriale dell'area, con uno stanziamento di 336 milioni di euro e la regia affidata alla Regione Puglia. Fondi probabilmente insufficienti per risolvere la situazione, ma che per lo meno segnano un inizio. Inoltre è auspicabile che siano poi coloro che verranno eventualmente riconosciuti come responsabili della situazione a pagare il prezzo maggiore per risolverla e non, come spesso accade, le finanze pubbliche.

Il ministro dell'ambiente Clini assume però una posizione un po' ambigua a proposito della faccenda, perché se da un lato, in un'intervista a Radio 24, esorta l'azienda ad "assumere un atteggiamento più collaborativo con le amministrazioni" e "non resistere alle prescrizioni e alle misure che sono state indicate per il risanamento dell'Ilva", dall'altro, come anche in altre dichiarazioni rilasciate in questi giorni, definisce "barocco" l'atteggiamento dell'amministrazione pubblica che, a suo dire, per ottenere le autorizzazioni porrebbe condizioni, sul piano ambientale, non sostenibili per le imprese. Come a dire che la colpa non è delle aziende che non rispettano i vincoli per la protezione dell'ambiente, non adeguano gli impianti alle norme comunitarie e quindi, perseguendo il profitto, continuano a inquinare e provocare malattie e morti, ma di quegli stessi vincoli, percepiti come troppo stringenti. Parole in linea purtroppo con la scarsa sensibilità ambientale che ha spesso caratterizzato le decisioni prese in Italia, risultato di una cultura diffusa che ha posto la sostenibilità in secondo piano rispetto allo sviluppo economico, incapace di valorizzarne la ricchezza e percependola sempre solo come un restrizione o un fastidio da aggirare quando possibile.

"Le conclusioni dei periti incaricati dal gip sono terrificanti" ha dichiarato il procuratore generale di Lecce, Giuseppe Vignola: "Il sequestro era obbligato, non si poteva ignorare la conclusione delle perizie, anche se il provvedimento non è stato preso a cuor leggero" e ha concluso: "i responsabili dell'inquinamento non sono né il gip né la Procura: le responsabilità sono altre. Quelle penali le abbiamo trovate noi, quelle politiche, economiche e amministrative non spetta a noi cercarle e trovarle".
Il dramma in atto vede quindi l'apparente contrapposizione tra il diritto al lavoro e quello alla salute, ma non bisogna far confusione sulle responsabilità della situazione, che non sono sicuramente da ascrivere alle norme e alle leggi e, soprattutto, è importante che interessi "altri" non strumentalizzino la legittima, comprensibile e assolutamente condivisibile protesta dei lavoratori per ottenere un atteggiamento più permissivo riguardo alla possibilità di inquinare. L'urgenza è quindi ora quella di salvaguardare i posti di lavoro e costringere i responsabili dell'Ilva ad adeguare l'azienda alle norme sanitarie e ambientali per riprendere l'attività, immaginando strategie di competitività che possano andare oltre il sacrificio della salute dei lavoratori, delle persone che hanno la sventura di vivere nei pressi degli stabilimenti e dell'ambiente.