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"Col piano Gol sul lavoro il Governo rischia un altro spreco di risorse"

Maurizio Del Conte (Photo: ANGELO CARCONIANSA)
Maurizio Del Conte (Photo: ANGELO CARCONIANSA)

Ci sono i soldi - 4,9 miliardi che arriveranno dall’Europa - e cinque percorsi per ricollocare chi perde il posto di lavoro. Non solo chi è in cassa integrazione, ma anche chi percepisce l’indennità di disoccupazione o il reddito di cittadinanza, ancora i lavoratori fragili, i precari, i disoccupati che non hanno un sostegno al reddito: la lista dei beneficiari del piano Gol (Garanzia di occupabilità dei lavoratori) a cui sta lavorando il Governo è corposa. Così come è ambizioso l’obiettivo fissato al 2025: tirare nel mondo del lavoro fino a 3 milioni di beneficiari, la maggior parte - il 75% - costituito da donne, under 30, over 55, disoccupati di lunga durata e persone con disabilità. Ma il rilancio delle politiche attive del lavoro devono tenere conto degli insuccessi più recenti, a iniziare dal reddito di cittadinanza, e di fallimenti più datati, che hanno a che fare non solo con la dimensione quantitativa (il numero dei centri per l’impiego, prima ancora degli uffici di collocamento), ma anche con quella qualitativa e cioè con l’incapacità di costruire un sistema capace di formare chi perde il posto in modo adeguato, garantendogli così una maggiore chance di ricollocazione.

Maurizio Del Conte, professore di Diritto del lavoro alla Bocconi, è uno che conosce molto bene cosa si nasconde dietro la rete ingarbugliata delle politiche attive. Dal 2016 al 2019 è stato presidente di Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro. E sul progetto Gol, a cui sta lavorando il ministro del Lavoro Andrea Orlando, non ha dubbi: “Riproporre lo schema di Garanzia Giovani - dice in un’intervista a Huffpost - vuol dire distribuire una grande quantità di risorse, ma con la stessa incapacità di risultato che registriamo da tempo”.

Professore, il piano del Governo individua ben cinque percorsi differenziati per ricollocare chi perde il posto di lavoro. Già distinguere tra chi deve aggiornare le proprie competenze rispetto a chi deve acquisirne di nuove è un passo in avanti. Non trova?

L’impianto complessivo che è stato tratteggiato nelle slide presentate dal Governo alle Regioni è più o meno la presa d’atto di quello che è il sistema attuale delle infrastrutture pubbliche dedicate alle politiche attive, cioè i centri per l’impiego, ma pensare che si possa raggiungere un’efficienza solo con un’iniezione di risorse è alquanto aleatorio. Per un miglioramento qualitativo delle politiche attive serve un ridisegno complessivo.

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Le possibilità per mettere in piedi un nuovo sistema delle politiche attive, almeno sulla carta, ci sono. A disposizione ci sono 4,9 miliardi, non di certo bruscolini.

Sicuramente rispetto a tutto il passato delle politiche attive, la vera novità è
rappresentata dalle risorse. Per la prima volta ci sono le condizioni economiche che potrebbero consentire di costruire politiche attive non solo sulla carta, ma anche nei servizi da erogare ai disoccupati. Le politiche attive costano, sono servizi e uno dei problemi gravissimi che hanno afflitto la rete dei servizi per l’impiego è stato il sottofinanziamento, quindi l’impossibilità di andare oltre quella che era tradizionalmente il vecchio ufficio di collocamento. Ma non basta.

Perchè?

Se oggi abbiamo 553 centri per l’impiego sparsi in tutta Italia con livelli di efficienza molto diversi tra di loro non è solo un problema di finanziamento, ma di capacità di costruire un’organizzazione di servizi che sia efficace. E questo dipende dalla capacità di disegnare il singolo centro per l’impiego.

Entriamo dentro i centri per l’impiego. Se la questione non è numerica, come si deve inquadrare se si vuole migliorare l’efficienza del sistema?

Innanzitutto prendendo consapevolezza, a livello centrale, che il tema delle politiche attive sta cambiando: servono a rafforzare l’aiuto nelle transizioni da lavoro a lavoro perché lo scenario del mercato del lavoro che ci si presenterà davanti non è più quello della conservazione del posto. Le politiche attive non sono più un optional che può venire utile ma si spera di no. In Europa questo tema si sta affrontando in modo serio, in Italia no.

Ci spieghi meglio.

In molti Paesi europei si è costruita un’agenzia nazionale per individuare
un modello su scala nazionale di funzionamento dei diversi servizi. Una testa unica di progettazione, ma anche di rilascio di un modello unico per i servizi. Se il modello è omogeneo allora si può verificarne l’efficienza. Se invece, come accade in Italia, si lascia a qualsiasi azienda di servizi di organizzarsi da sola allora è evidente che la stessa perde la capacità di controllo. Il piano del Governo non fa questo salto: prevede percorsi suddivisi per platee, ma non basta dire che ci sono cinque gruppi.

La tipizzazione di chi deve rientrare nel mondo del lavoro è superflua?

Non dico che sia superflua, ma è insufficiente. Dire che qualcuno deve fare reskilling e un altro upskilling è il livello minimo. Il problema è come li faccio, dove progetto i percorsi, dove individuo gli obiettivi e soprattutto se a livello di singolo punto di erogazione del servizio sono in grado di controllare che il servizio funzioni e che alla fine il risultato sia stato all’altezza degli obiettivi prefissati.

Insomma, mi pare di capire che il piano del Governo non la convince.

Il piano si ispira al modello di Garanzia Giovani che non ha funzionato e che per questo non può essere riproposto oggi. Se abbiamo 4,9 miliardi da spendere, riproporre questo schema vuol dire distribuire una grande quantità di risorse, ma con la stessa incapacità di risultato che abbiamo registrato fino ad ora.

Cosa manca nel piano del Governo?

L’idea di costruire un sistema agenziale dove i punti di erogazione, cioè i
centri per l’impiego, acquisiscano tutto quello che è necessario in termini di processo, misure, servizi e controllo a livello unitario, nazionale. Un po’ come il modello di Poste: in qualsiasi ufficio postale so che posso trovare lo stesso servizio. Non è che a Milano ci vogliono due giorni per spedire una raccomandata e a Catanzaro venti. Serve una rete nazionale nella quale darsi obiettivi condivisi.

Quali sarebbero i vantaggi di questo centro di progettazione unico a livello nazionale?

Un’uniformità di azione, di progettazione e soprattutto di verifica. Non è sensato che ogni singolo centro per l’impiego debba ricevere un certo quantitativo di
soldi e poi inventarsi come costruire e progettare i percorsi formativi, di accompagnamento e le misure di incrocio tra domanda e offerta. Che senso ha moltiplicare per 553 funzioni che potrebbero essere accentrate?

Non si rischia di perdere la natura territoriale delle politiche attive. Se vivo a Reggio Calabria forse è meglio costruire un percorso formativo e di ricollocamento legato alle esigenze del territorio.

Assolutamente, ma non dobbiamo cadere nella retorica della territorialità delle politiche attive. I progetti territoriali sono l’ultimo miglio, ma non posso ogni volta inventarmi un nuovo modello di operatore turistico e lasciare la progettazione al singolo ente formatore. Scambiamo la specializzazione con la totale anarchia, cioè con la totale libertà di scegliersi il modo di costruire determinate misure. Perché sulla scuola nessuno dice che a Catanzaro bisogna fare una scuola diversa da quella che si fa a Firenze, mentre nessuno dice che un saldatore deve avere gli stessi requisiti al di là di dove vive e lavora?

Questo percorso a cosa porta?

A una qualifica professionale in grado di diventare uno standard certificato a livello nazionale. Il fabbro in Sicilia non è diverso da quello di Milano. Il cittadino della Sicilia deve accedere alla stessa formazione e agli stessi servizi a cui si accede in un’altra Regione. Forse qualcuno dimentica che veniamo da un’esperienza dove non siamo riusciti a garantire l’omogeneità dei servizi sul territorio nazionale. Il Governo vuole assumersi la responsabilità di essere in grado di progettare un sistema per cui sia in grado di dire quali servizi si fanno, quando, con quali modelli organizzativi e con quali risultati?

Veniamo a un altro vulnus di questo percorso: la formazione. Che soluzione propone?

Progettare e erogare la formazione non è banale. I centri di formazione professionali sono concentrati nella stragrande maggioranza al Nord, anche qui bisogna uscire dalla logica che basta dare più soldi. Una strada da percorrere è investire realmente sugli Its, gli istituti tecnici superiori: abbiamo diecimila diplomati all’anno che escono dagli Its, ma la Germania ne ha un milione.

Quindi?

Anche qui serve un’azione coordinata, ma in generale se si guarda al mondo della formazione qualcuno si è posto il problema di come è variegato? Siamo tutti formatori in Italia, basta essere anche da soli, avere un curriculum adeguato, locali idonei e una connessione Internet per ottenere le certificazioni. Il sistema di finanziamento della formazione professionale va completamente rivisto.

Come?

Chi ha i soldi detta le condizioni per la spesa. Dobbiamo favorire gli accorpamenti e lo sviluppo dei centri di eccellenza, ma soprattutto dobbiamo andare a vedere i risultati. Finanziamo sulla base dei risultati, non in modo indiscriminato.

Torniamo al luogo deputato a trovare un posto di lavoro a chi l’ha perso: i centri per l’impiego. Cosa non funziona?

Sono in arrivo 11mila operatori nei centri per l’impiego, ma bisogna prima decidere di cosa abbiamo bisogno. Bisogna fare un contratto collettivo degli operatori dei centri per l’impiego e individuare le competenze specifiche. Chi è l’orientatore? Lo psicologo che caratteristiche deve avere? Non si può assumere gente a caso.

A proposito di reinserimento nel mondo del lavoro. Perché il reddito di cittadinanza ha fallito in questo?

Perché manca una progettazione ad hoc. Ci vuole un’analisi seria e puntuale della platea. Un buona parte della platea dei beneficiari del reddito non è avviabile al lavoro, ha un problema di povertà educativa. I centri per l’impiego devono essere messi nelle condizioni di capire come ricollocare queste persone: una classe di formazione di 50 persone non necessariamente funziona meglio di una di 15, ma a un formatore ovviamente conviene la classe da cinquanta. Il reddito dovrebbe essere dato in funzione dell’efficienza della formazione.

Un’altra questione cruciale è come collegare le politiche attive a quelle passive. Come farlo?

Innanzitutto dimostrando che si vuole fare. Se l’Europa ha una marcia in più è perché si è compreso che bisogna mettere la leva del sussidio nelle mani del soggetto che si prende in carico della persona per trovargli un posto di lavoro. Io, soggetto che ti ha preso in carico, ti pago. A quel punto l’aiuto non viene più percepito come un sussidio, ma come una retribuzione rispetto all’ingaggio che legato al rispetto dell’impegno della persona nel fare i corsi di formazione. Ma il Governo evidentemente non l’ha compreso appieno se c’è un tavolo per discutere della riforma degli ammortizzatori sociali e un altro, separato, per decidere sulle politiche attive”.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.