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I tre crucci dei mercati

Dopo l’euforica seduta di lunedì scorso, quando i principali indici del mondo occidentale (SP500 e Dow Jones in America, Dax in Europa) hanno messo a segno la chiusura di seduta più alta di sempre, i mercati azionari si sono dapprima pentiti, tornando rapidamente e significativamente sotto i livelli raggiunti lunedì, poi stabilizzati e sembrano ora paralizzati dall’incapacità di decidere se credere a quel che vedono o continuare a puntare su quel che sognano.

Perché quel che vedono non è propriamente in linea con i sogni di gloria che la TrumpEconomy ci ha promesso e a cui i mercati sono ancora ostinatamente aggrappati, sebbene con minor convinzione.

I tre fenomeni che fanno fortemente traballare gli entusiasmi sono la paralisi decisionale del condottiero, il crollo del prezzo del petrolio e l’appiattimento della curva dei rendimenti sul mercato obbligazionario.

Sullo stallo amministrativo che si osserva in USA non c’è molto da fantasticare. Trump è azzoppato dall’inchiesta sul russiagate, che ora cerca di alzare il velo anche sui traffici finanziari del suo impero personale e coinvolge nelle indagini la famiglia (il genero e consigliere Kushner) e la sua stessa persona. E’ possibile che il suo silenzio riveli una certa preoccupazione, che magari abbia scheletri indigesti negli armadi che gli investigatori stanno per aprire. Impressiona la minore baldanza rispetto al passato. I temi economici sono accantonati, in attesa di trovare le risorse per poter presentare qualche riforma pro-business. Il perno dell’incertezza è rappresentato dalla riforma dell’Obamacare. In questi giorni viene presentato il progetto in Senato, ma resta avvolto dal mistero e non si capisce se riuscirà a trovare una maggioranza in grado di approvarlo, dopo i ripetuti fallimenti passati. Il progetto è molto discusso all’interno dello stesso partito repubblicano, poiché ritenuto da alcuni troppo duro per i molti milioni di americani poveri che verrebbero estromessi dagli aiuti statali sulle cure mediche, da altri troppo blando nella demolizione dell’impianto costruito da Obama. Quel che è necessario, e per il momento scarsamente visibile, è che riesca a fornire significativi tagli alle spese sanitarie pubbliche, poiché da qui dovrebbe arrivare il grosso delle risorse necessarie per attuare i tanto sbandierati tagli alle tasse sulle persone e sulle imprese che hanno fatto sognare Wall Street. In politica estera continua a ondeggiare come un ubriaco, senza riuscire a raccapezzarsi sui vari scacchieri che vedono gli USA impegnati in ruoli decisivi. Ne è un esempio, da ultimo, il recente duello nei cieli siriani, dove si è sfiorato l’incidente bellico con i russi, che gli hanno inviato un significativo ed ufficiale altolà.

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La seconda fonte di perplessità riguarda il petrolio, che in meno di un mese, dal 25 maggio al 21 giugno, è arrivato a perdere fino a 10 dollari (praticamente un quarto del suo valore). La scivolata è stata veramente molto forte e continua e, quel che è peggio, è arrivata in concomitanza con la decisione dell’OPEC di proseguire il blocco della produzione oltre la scadenza originaria.

Quella che doveva essere una notizia in grado di stimolare un rialzo dei prezzi, si è rivelata del tutto inutile, neutralizzata dai dati sulle nuove aperture di pozzi in America, nonostante il calo dei prezzi. E’ un segno che l’Arabia Saudita sta perdendo la partita contro i produttori USA di shale-oil.

Lo sviluppo delle tecnologie estrattive oggi consente di produrre, nei campi estrattivi americani, a costi quasi dimezzati rispetto al passato. Pertanto il barile anche agli attuali prezzi molto bassi continua ad attirare i “cercatori d’oro nero”. Lo dimostra l’andamento del dato sugli impianti di trivellazione esistenti negli USA: i pozzi aperti toccarono il picco a 1.609 nell’aprile 2014, quando il prezzo del petrolio era sopra i 100 dollari al barile. La guerra dei prezzi lanciata dall’Arabia Saudita, portando i prezzi ad implodere fino ai 26 dollari del febbraio 2016, causò la chiusura di gran parte degli impianti americani, che toccarono il minimo a 316 nel maggio 2016. Ma il forte rimbalzo del petrolio che in soli 4 mesi tornò a superare i 50 dollari, pian piano vide ripartire il business dello shale–oil americano. Da allora è un continuo progresso nel numero degli impianti in attività, che salgono ogni settimana e sono arrivati a 747. Oggi avremo la consueta rilevazione settimanale di Baker-Hughes, che ci informerà se la salita continua imperterrita, nonostante il prezzo tornato a 42 dollari. L’estrema vivacità della produzione americana è stata favorita dal progresso tecnologico, che ha abbattuto in modo molto significativo i costi produttivi rispetto a quelli che si dovevano sostenere solo 3 anni fa. Allora il punto di pareggio tra costi e ricavi per la maggior parte dei produttori di shale-oil era intorno ai 60-70 dollari. Costoro sono stati spazzati via dal petrolio a 26 dollari. Ma nel frattempo le nuove tecnologie consentono ora di stare in piedi anche col petrolio a 40 dollari, e questo spiega il ritorno dei cercatori d’oro nero americani. Il continuo aumento di produzione USA ha compensato il blocco della produzione OPEC e mantiene uno squilibrio tra offerta, sempre abbondante, e domanda, piuttosto stagnante per colpa delle incertezze economiche globali e per lo sviluppo sempre più diffuso delle energie rinnovabili.

L’Arabia deve mettersi il cuore in pace. Non riuscirà a distruggere la concorrenza americana, a meno di portare il petrolio nuovamente sotto i 30 dollari e mantenerlo a quei livelli per un po’ di tempo. Ma questo esito non sarebbe sostenibile da molti paesi OPEC, e forse nemmeno dalla stessa Arabia, perché ridurrebbe ulteriormente le entrate, che già stanno in decisa sofferenza, su cui si basa l’economia di questi paesi.

L’esito più probabile sembra essere quello di una stabilizzazione dei prezzi intorno ai 40 dollari, con conseguenze deflazionistiche di rilievo.

Infatti l’inflazione, proprio negli ultimi mesi di calo del petrolio, ha abbassato di nuovo la testa e si è allontanata dagli obiettivi desiderati dalle banche centrali (il 2%). Questo fatto, imprevisto da tutti tranne che da Draghi (gli va dato atto!), ha depresso i rendimenti del mercato obbligazionario, riportando d’attualità gli scenari di stagnazione economica, al posto di quelli di accelerazione della crescita stimolata dalla rivoluzione trumpiana. Ecco perché sta emergendo il terzo problema: l’appiattimento della curva dei tassi in USA. Un appiattimento che si accompagna a quel che avviene in Cina, dove si nota addirittura l’inversione della curva dei tassi.

In USA il fenomeno è provocato dalla divergenza tra la percezione dei mercati e quella che la FED vuole imporre. La FED si ostina a mantenere immutate le sue previsioni di crescita, e dichiara di voler proseguire il processo di normalizzazione monetaria alzando gradualmente i tassi a breve.

I mercati vedono il futuro della crescita decisamente più grigio della FED e si preoccupano delle spinte deflazionistiche del petrolio. Perciò fanno scendere i rendimenti sulla parte medio-lunga della curva.

Ecco spiegato l’appiattimento della curva.

Non siamo ancora all’inversione, fenomeno che normalmente precede le svolte cicliche della congiuntura e chiama l’arrivo del rallentamento o della recessione.

Ma i motivi di preoccupazione cominciano a farsi sempre più evidenti. Può darsi che abbia ragione la FED e torto i mercati obbligazionari. Però, in passato, in situazioni simili sono state assai più le volte in cui hanno avuto ragione i mercati.

Concludo con una nota finale circa il commento di ieri. Ho ricevuto diverse manifestazioni di consenso e nessuna ostile da parte di lettori sulle parole di disprezzo usate verso i soggetti che stanno gestendo il caos bancario nel nostro paese. Le interpreto non come un plauso nei miei confronti, umile osservatore delle vicende economiche e finanziarie, ma come un indicatore dello schifo che, oltre a me, molti altri provano nell’abitare questo paese, sfruttato, bastonato e preso in giro da politici, banchieri e uomini d’affari… D’affari loro.

Autore: Pierluigi Gerbino Per ulteriori notizie, analisi, interviste, visita il sito di Trend Online