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Whirlpool, Draghi incrocia la rabbia dei lavoratori licenziati

Whirlpool (Photo: CESARE ABBATEANSA)
Whirlpool (Photo: CESARE ABBATEANSA)

Non passa nemmeno un’ora dall’annuncio dell’avvio della procedura di licenziamento quando i lavoratori dello stabilimento Whirlpool di Napoli decidono che la prima mossa è portare la rabbia e la protesta davanti a Mario Draghi. Non a palazzo Chigi, non tra una settimana. Ma sotto al carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove il premier è atteso insieme alla ministra della Giustizia Marta Cartabia. Subito, il tempo di prendere le macchine e percorrere quaranta chilometri. Le magliette rosse della Fiom, le bandiere di tutte le sigle sindacali, le mascherine, ma soprattutto la prima immagine della frattura tra il Governo e un pezzo del Paese reale che in una settimana si è visto rovesciare addosso i 152 licenziamenti alla Gianetti Ruote di Ceriano Laghetto, i 422 alla Gkn di Campi Bisenzio e i 340 della Whirpool. Vicende diverse, ma accomunate da una serie di questioni che convergono e che sono esplose. Anche dentro al Governo. È l’ingovernabilità del passaggio dal blocco dei licenziamenti a una fase ordinaria, ma anche una lunga stagione di reindustrializzazioni fallite.

Gli operai a poche centinaia di metri da Draghi, i sindacati che hanno cambiato strategia e registro (”È una guerra”, “arrivano gli sciacalli”, dicono i segretari della Fiom) dopo mesi di pax draghiana, l’avviso comune sottoscritto tra il Governo e le parti sociali disatteso dopo neppure una settimana, sono tutte immagini di una transizione “post pandemica” disordinata. Non è solo la già delicata questione dei posti di lavoro bruciati. La fibrillazione dentro all’esecutivo è una spia di un tema molto più grande e delicato. Basta leggere un passaggio del tweet pubblicato dal vicesegretario del Pd Peppe Provenzano dopo che Whirlpool ha deciso di rifiutare la proposta del Governo di usufruire di 13 settimane aggiuntive di cassa integrazione in cambio di un impegno a non licenziare: “Non si possono accettare licenziamenti quando sono previsti ammortizzatori per accompagnare il rilancio del sito”. E fin qui tutti d’accordo visto che poco prima il titolare del Mise in quota Lega Giancarlo Giorgetti ha definito “irragionevole” l’atteggiamento dell’azienda. I 5 stelle, che al ministero hanno la viceministra Alessandra Todde, tra l’altro delegata alle vertenze, sono ancora più agguerriti. “Non mollo io e non mollano i lavoratori”, dice Todde che si è ritrovata da solo alla videoconferenza in cui l’azienda ha annunciato la linea dura. Provenzano però aggiunge: “Ma Giorgetti offra una soluzione industriale”.

Il Pd esce allo scoperto e chiede una soluzione per garantire una continuità produttiva a Napoli, ma il tema è ancora più largo e più critico se si guarda ai tavoli di crisi attivi al ministero e da tempo. Il tema è quello della politica industriale, di come si fa, di come ripartire, di come incastrare la ripresa del Paese calibrata sul Recovery con un sistema che è in affanno, ingabbiato tra crisi generate da fondi stranieri agguerriti, ma anche da piani di rilancio ancora sostanzialmente fermi come quello l’ex Ilva, ancora da crisi - per prendere in considerazione un’altra prospettiva - che si trascinano da anni, come appunto Whirlpool, che nulla hanno a che fare con il Covid e che durante la pandemia sono state congelate, ma non fatte avanzare verso una soluzione positiva.

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La cifra della complessità della grande crisi industriale l’ha data l’amministratore delegato di Whirlpool Italia poco prima di annunciare i licenziamenti. “Questo è un tavolo aperto da circa 26 mesi”, ha detto Luigi La Morgia ai sindacati collegati in videoconferenza. I 26 mesi sono quelli trascorsi da quando l’azienda ha annunciato la volontà di chiudere. È un altro elemento di una vicenda che non può essere semplificata con lo schema della multinazionale straniera cattiva. La scelta di non usufruire di nuove settimane di cassa integrazione, tra l’altro pagate dallo Stato, danneggia i lavoratori e soffoca lo spazio a disposizione del Governo per tirare su un piano b, ma più di due anni senza una soluzione alternativa raccontano di tentativi falliti. Quello dei 5 stelle, con Luigi Di Maio ministro dello Sviluppo economico: il piano industriale da 250 milioni, frutto di un accordo sottoscritto a settembre del 2018, fu cestinato dall’azienda dopo nemmeno sette mesi. Ma anche quelli più recenti: Smeg, Prs, Seri, Cmd sono tutti nomi di potenziali cavalieri bianchi che si è riusciti a fare appena avvicinare alla reindustrializzazione dello stabilimento Whirlpool di Napoli.

Ora è evidente che non sempre la colpa è stata dei governi che si sono susseguiti, qualche volta anche i sindacati si sono messi di traverso non fidandosi dei possibili nuovi investitori. Ancora Whirlpool ha disatteso un impegno sottoscritto e ha rifiutato ora una soluzione a costo zero. Neppure i fondi hanno onorato al meglio il loro impegno per l’Italia, tantomeno i big stranieri (il caso dei cinesi del gruppo Wanbao all’Acc di Mel, nel bellunese, è emblematico). Ed è pure evidente che non si può ignorare come la delocalizzazione, che tiene nella pancia un costo del lavoro elevatissimo in Italia, sia un fenomeno che esiste da tempo e che è sfuggito ai governi del Paese degli ultimi vent’anni. Ma la parcellizzazione delle responsabilità non attenua il colpo, semmai ne evidenzia la fragilità del sistema di darsi delle regole sostenibili. Quantomeno l’idea di un futuro. Ancora prima che non finisca come in una giungla, con i lavoratori licenziati con un messaggio su Whatsapp.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.