Il cortocircuito sul cibo nel mondo
Un aumento della produzione e una riduzione della domanda da parte dei consumatori potrebbero rappresentare la giusta formula che, nell’arco di un decennio, porterà alla stabilizzazione dei prezzi alimentari. A rilevarlo è l’ultimo rapporto realizzato dall’OCSE e dalla FAO, l’Agricultural Outlook 2021-2030, che offre una panoramica decennale su quaranta delle principali commodities, tra alimenti agricoli, ittici e biocarburanti.
Le ripercussioni della pandemia sul comparto agricolo hanno condizionato l’indice dei prezzi, facendolo oscillare in continuazione e aumentando così il rischio di estromettere le persone più vulnerabili dall’accesso al cibo. L’impennata dei prezzi alimentari non è ancora terminata, sia chiaro, considerato che nel maggio scorso il ritmo con cui sono cresciuti è stato il più rapido degli ultimi dieci anni. Rispetto al mese precedente, infatti, sono stati gli oli vegetali (+7,8%), lo zucchero (+6,8%) e i cereali (+6%) a trainare l’exploit più alto registrato dal 2011, inferiore del 7,6% rispetto all’apice mai raggiunto. Anche nel report viene sottolineato come, nel breve termine, i cambiamenti climatici, la crescita economica con la conseguente redistribuzione dei redditi, le dinamiche demografiche, gli sviluppi legati ai mercati energetici – fortemente connessi ai mezzi di produzione - nonché le tendenze politiche avranno un impatto notevole sui prezzi alimentari, che non scenderanno dall’oggi al domani. Eppure, nello spazio del decennio che stiamo vivendo, qualcosa dovrebbe cambiare.
Anzitutto, la domanda di materie prime dovrebbe aumentare dell’1,2% all’anno, in calo di circa un punto percentuale rispetto al periodo 2011-2020, mentre la produzione dovrebbe vedere una crescita annua dell’1,4%, proveniente per lo più dai Paesi a basso reddito e da quelli emergenti. A conferma di ciò, sono arrivate anche le parole dell’economista peruviano Maximo Torero: “I fondamentali non ci dicono che ci stiamo muovendo verso un super ciclo dei prezzi delle materie prime”, ha dichiarato nel mezzo di un webinar il vice direttore generale del dipartimento economico e sociale della FAO. In sintesi, la curva della domanda tenderà a diminuire. A svolgere un ruolo fondamentale poi saranno gli investimenti, pubblici ma soprattutto privati, che garantiranno uno sviluppo significativo delle tecnologie e delle infrastrutture in grado da rendere le terre più efficienti e, per l’appunto, produttive. Le stime dell’OCSE e della FAO prevedono che le migliori rese provvederanno all’87% della crescita, l’aumento dell’intensità delle colture al 7% e l’espansione delle terre coltivate al restante 6%. Negli Stati industrializzati, invece, si dovrebbe verificare un calo della produzione in virtù dei paletti ambientali che sono stati fissati dalle varie amministrazioni nazionali per raggiungere gli obiettivi comuni di sostenibilità.
Proprio ai governi è stato però tirato un buffetto di rimprovero da parte delle due organizzazioni internazionali. “A meno di dieci anni dal 2030, termine stabilito per il conseguimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdg)”, si legge all’interno dell’Outlook, “i governi devono intensificare gli sforzi per raggiungere gli obiettivi globali in materia di ambiente e sicurezza alimentare”. Logico pensare che il cigno nero rappresentato dalla pandemia da Covid-19 possa portare a una revisione dei piani prefissati, con aggiustamenti sia in termini economici sia nelle tempistiche di realizzazione. Ma, proprio in virtù dell’esperienza che ancora oggi stiamo maturando, “tale situazione richiede un’attenzione urgente ai fattori e alle forze che guidano l’andamento dei sistemi agroalimentari”. Quindi, fare di più e meglio è il compito della politica per provare a raggiungere quella Fame Zero difficilmente realizzabile entro fine decennio e diventata oramai più un promemoria per gli anni a venire. Una trasformazione del sistema alimentare, insomma, incanalandolo verso un percorso di “sostenibilità, efficienza e resilienza” – termine che, come i prezzi alimentari, ha visto un’iper inflazione da circa un anno e mezzo – è la sfida che gli attori politici si trovano a dover affrontare. Sembrerebbe però complesso realizzare questa rivoluzione partendo dal concetto di base che c’è necessità di aumentare la produzione per sfamare l’intera popolazione mondiale, che nel 2030 dovrebbe contare circa 8,5 miliardi di abitanti. Piuttosto, la panoramica che viene illustrata assomiglia in larga parte alla strada che è stata già imboccata da tempo e da cui, invece, molti esperti chiedono di uscire alla prima deviazione possibile.
Che un reddito più basso porti a una limitazione nelle scelte non è di certo una rivelazione. Ma a preoccupare è il domani, dato che all’orizzonte non soltanto non si intravede un assottigliamento tra i gap salariali ma, al contrario, un allargamento della forbice. E qui entra in gioco un altro fattore, non meno importante. La diminuzione dei prezzi alimentari è certamente una notizia accolta con gioia dai consumatori: più un prodotto è accessibile, minore sarà il numero di individui a cui non verrà negato l’accesso al cibo. L’altro lato della narrazione, però, ci parla anche di una necessaria attenzione all’eticità della cifra che leggiamo sulle etichette.
A fungere da calmiere dei prezzi sarà certamente la fine della corsa all’acquisto di scorte alimentari da parte dei Paesi iniziata durante la diffusione massima del contagio. Più corretto, forse, parlare di un rallentamento di questa pratica portata avanti soprattutto dalle economie emergenti come Cina, India e Brasile, rispettivamente prima seconda e quinta potenza demografica mondiale, allarmate su come poter sfamare la numerosa popolazione data l’insufficienza dei mezzi. La disponibilità delle terre coltivabili, infatti, è diventato un limite abbastanza grande per chi ha brame di governance sul palcoscenico internazionale. La ripresa delle esportazioni e del commercio rappresenta quindi il motore di rilancio fondamentale, come sottolineato anche nell’Outlook di FAO e OCSE, “per garantire la sicurezza alimentare, l’alimentazione e i redditi delle aziende agricole a livello mondiale nonché per far fronte alla povertà rurale”. Ma non è una conseguenza automatica né scontata, non in questo sistema di produzione perlomeno.
Basti pensare al braccio di ferro tenuto per mesi tra agricoltori indiani e il governo di Nerendra Modi, mai così in difficoltà come in quella occasione, per una riforma agraria promossa senza consultazione delle parti e che prevedevano la liberalizzazione della vendita dei prodotti agricoli, offrendo così la possibilità ai contadini quanto ai produttori di poter acquistare e rivendere i beni senza vincoli di prezzi e anche sui mercati privati. In tal maniera, i limiti statali imposti alle piazze commerciali venivano meno e a beneficiarne maggiormente era la grande distribuzione. La mobilitazione di oltre 300mila contadini, partiti con trattori e camion da ogni regione dell’India per arrivare di fronte le porte di Nuova Delhi – ed entrarvi – è stata presa come esempio di lotta dalle altre comunità rurali e come preavviso per i governi nazionali. Una situazione del genere, infatti, non è unica nel suo genere e non deve essere ristretta al solo caso dell’India. Anche in Brasile, che fa delle esportazioni la sua colonna portante dell’economia, i braccianti agricoli vedono il loro lavoro venire imballato in grandi contenitori e finire sulle tavole all’estero.
Molto probabilmente in Cina, diventata partner strategico specialmente dopo la guerra dei dazi imposta da Donald Trump in cui sono stati inclusi i prodotti alimentari, come la soia di cui Pechino fa uso spropositato per i mangimi animali. Il colosso asiatico ha una percentuale di terre disponibili che oscilla tra il 7% e il 13%, troppo poche per sfamare oltre 1,4 miliardi di bocche, e così è costretta a rivolgersi al di fuori. A sua volta, il Brasile ha sempre praticato una politica di disboscamento per crearsi spazi da destinare alla coltivazione, molto spesso di un solo prodotto. Una consuetudine che con l’arrivo di Jair Bolsonaro nel 2018 è incrementata a dismisura. Le motivazioni che hanno messo in allarme gli agricoltori indiani e che li hanno portati a uno sciopero perpetuo e delle volte anche violento, quindi, non bisogna pensare che non siano replicabili altrove. Con modalità, tempistiche e distinguo in base alla zona geografica, senza dubbio, ma il problema dei prezzi bassi è reale e comune in molti altri contesti.
Anche l’Europa non è immune a questo sentimento e le balle di fieno portate dagli agricoltori francesi sugli Champ-Elysées nel 2019 ne sono un’evidente dimostrazione. Di fronte all’aumento dei costi di produzione e l’abbassamento dei prezzi alimentari, i lavoratori agricoli avevano deciso di passare all’azione per denunciare il crollo dei loro redditi, così da influenzare e mettere pressione al governo di Emmanuel Macron che stava iniziando delle trattative commerciali con la grande distribuzione. Una sensibilizzazione sul tema è partita cinque anni fa, sempre in Francia, quando fece la sua comparsa sugli scaffali dei supermercati “C’est qui le padron?! La marque du consummateur”, un’idea originale che lasciava ai consumatori la decisione su quali prodotti proporre sul mercato, in che modo e quanto fosse giusto pagarli, così da garantire una degna retribuzione ai produttori. Tre anni dopo, 150 milioni di beni alimentari acquistati da circa 14 milioni di francesi e un fatturato sui 90 milioni di euro, il marchio è stato esportato oltre i confini, arrivando anche in Italia. Un’iniziativa che ha permesso di sensibilizzare il consumatore su un tema essenziale per il settore agroalimentare e su cui c’è ancora tanto da insegnare.
D’altronde, l’agricoltura dovrebbe essere il primo settore da cui iniziare il cambiamento, date le sue responsabilità in termini di sostenibilità ambientale. E invece viene stimato che da qui al 2030 le emissioni di gas serra del settore agricolo aumenteranno del 4%, dovute per lo più all’espansione della produzione animale. Non è un segreto che la richiesta di carne provenga a gran voce da tutto il mondo, anche da quelle zone dove culturalmente non è stata mai presente nelle diete. L’incremento di consumo pro capite di carne dovrebbe crescere dello 0,3%, soprattutto nei Paesi ad alto reddito, chiaramente, con la rossa che verrà sostituita sempre di più con il pollame (e in parte latticini) che rappresenterà il 41% delle proteine di carne assunte entro il 2030. Il tutto, poi, arriverà in tempi e modalità differenti.
Se le disuguaglianze socio economiche tra i Paesi poveri e ricchi non si assottiglierà, la scelta alimentare per gli abitanti sarà fortemente condizionata. Mentre in quelli industrializzati a cambiare non sarà la quantità di cibo disponibile quanto piuttosto la qualità (che sarà migliore, è ovvio), in quelli emergenti la disponibilità pro capite salirà del 3,7%, che tradotto in termini energetici ammonta a 89 calore al giorno in più, ma di alimenti basici ed edulcoranti. Sì, perché il consumo di frutta, verdura e carne subirà invece un calo, come nelle zone dell’Africa sub-sahariana dove si sta andando incontro a una decrescita dell’autosufficienza alimentare per i principali beni alimentari. E parliamo di una delle aree più dinamiche a livello demografico, con una crescita di popolazione che dovrebbe raddoppiare da qui a qualche decennio. Quando l’augurio è che non servirà produrre più cibo ma con più criterio, all’interno di una filiera sostenibile e attenta anche al centesimo.
Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.