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I posti di lavoro a rischio in Italia

Secondo la Cgil, sono 300mila i lavoratori che rischiano. Ecco le testimonianze di due dipendenti di aziende in crisi

Tecnici, politici e sindacati dibattono sul lavoro. I dipendenti invece incassano e portano a casa le scelte, figlie di una crisi che, in termini occupazionali, ha già prodotto una gravissima lacerazione nella vita di migliaia di pe rsone. Secondo la Cgil, gli addetti a rischio sono 300mila nel caso di quelle 300 aziende per le quali è stato chiesto l'intervento del governo. Sono invece 109, con 135mila dipendenti, quelli che risentono di un collasso che mette a rischio, in diverse zone, anche la tenuta del territorio. Uno sconvolgente cambiamento di scenario economico che investe grandi marchi del capitalismo italiano, ma anche imprese insospettabili della farmaceutica e del turismo. Non mancano nemmeno i settori di avanguardia, o le criticità che, diventate croniche, sembrano ormai irrisolvibili.

Come ha dichiarato Salvatore Barone, coordinatore del Dipartimento Industria della Cgil, "la sofferenza creditizia delle banche, le difficoltà dei grandi gruppi e le conseguenze che comportano sull'indotto fanno sì che a chiudere sia una miriade di imprese locali - commenta - ed è per questo che dobbiamo parlare di licenziamenti di massa". Non solo: "Se trasformiamo il monte ore di cassa integrazione in posti di lavoro vediamo che ci sono, già oggi, oltre 400mila lavoratori inattivi".

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ha ascoltato la voce di chi, oltre a perdere il lavoro, ha anche deposto più di un’illusione sul funzionamento di un certo capitalismo davanti a cui lo Stato spesso resta a guardare. Perché non tutte le aziende sono in crisi allo stesso modo.

Lo dimostra il caso di Silvia (che ci ha chiesto di omettere il cognome a tutela della sua riservatezza), tecnico di laboratorio superiore nel colosso farmaceutico Sanofi-Aventis, multinazionale francese che lo scorso 7 novembre ha annunciato il suo piano di ristrutturazione. Una manovra che comporterà al licenziamento di oltre 400 persone, tra informatori scientifici della rete nazionale, impiegati  e ricercatori degli uffici e del Centro Ricerche di Milano, che verrà chiuso dopo che era stato inaugurato solamente nel 2008. Una decisione che tramortisce i dipendenti, non fosse per altro che il colosso francese appare agli stessi non del tutto in crisi.

Spiega Silvia: “Non si può inquadrare la decisione in una situazione di crisi intesa come problema economico. Certo, una contrazione a livello mondiale nel settore farmaceutico c’è, ma Sanofi non è in crisi, né ha problemi di liquidità. Questa è una scelta che rientra in un nuovo trend: concentrare in pochi hub internazionali una ricerca che prima era fatta in centri più piccoli ma altamente specializzati. Non la viviamo come una bocciatura della ricerca italiana, anzi: la casa madre fa queste scelte anche in Francia, Germania. Sono scelte economiche, tipicamente manageriali, fatte da chi preferisce esternalizzare i servizi, piuttosto che tenere in piedi laboratori e strutture di proprietà”.

Reinventarsi, non sarà facile: “Sono pessimista, perché questa tipologia di cambiamento coinvolge tutto il settore, anche aziende altre che vogliono, allo stesso modo, abbattere i costi. Le mie competenze sono estremamente specifiche e settoriali. Ho lavorato due anni, con borse di studio, all’università ma non posso tornare indietro. Altre realtà, come le biotech, sono piccole e labili”. La classica fuga da cervello italiano non è contemplata: “Sicuramente all’estero, in America, ci sarebbero più possibilità e merito. Ma non penso di andarmene. Ho comprato casa qui, quando certo non potevo prevedere che la situazione mutasse. Sono stata assunta sei anni fa”.

Pur riconoscendo che l’accordo sindacale aiuta i dipendenti con un anno di cassa integrazione, con un'integrazione alla stessa, e poi la mobilità, resta la perplessità su come lo Stato, più complessivamente, agisca in questi casi: “Non è possibile che in uno Stato un’azienda florida prenda e se ne vada, tanto più che le aziende farmaceutiche ricevono finanziamenti, ticket; il nostro Centro è stato costruito anche con finanziamenti pubblici. Le aziende vanno all’estero, producono con meno ma vendono allo stesso prezzo. Tanto la domanda di cassa e mobilità non prevede un no, è un silenzio assenso. Che però ricade drammaticamente sul contribuente”.

Nel caso invece di Mauro B. dipendente, in Campania, di Agile ex Eutelia, la vicenda è molto più complessa .E dimostra come, per scelte scellerate, si possa essere assunti in una società e morire, da dipendente, in un’altra. Nel caso di Agile, gli addetti, ancor prima del lavoro, hanno perso un sogno unico e raro che apparteneva a tutto il capitalismo italiano, in ambito tech. Perché Agile, controllata di Eutelia, è l’ultimo passaggio di una storia che vede Eutelia acquistare i resti di Olivetti, diventata nel frattempo Getronics, per la “modica” cifra di 1 euro.

Nel 2009, 2.000 lavoratori dell’IT furono ceduti ad Agile, piccolo contenitore di proprietà Eutelia. E lo stesso giorno, Agile fu venduta al gruppo Omega. Da leader del tech a restare senza corrente elettrica, per morosità, nello stesso anno. Anni di lotte, contrapposizioni frontali, anche violente: fino alla dichiarazione, nel 2010, del tribunale fallimentare, dell’insolvenza di Agile, con la nomina di tre commissari e la ricerca di un rilancio possibile per mano di nuovi acquirenti. Nel 2010, arrivò anche la custodia cautelare per 8 manager e azionisti di Eutelia per bancarotta fraudolenta. Tra loro Samuele Landi, presidente di Eutelia, rifugiatosi a Dubai. Dopo anni di cassa integrazione, per i dipendenti di Agile, a gennaio è stata raggiunto un accordo con cui la società subentrante Tbs si è impegnata ad assumere 220 addetti, anche se i lavorati sono più di 1.300.

Tuttavia, considerando anche il problema dei programmi regionali di ricollocamento, dall’accordo rischiano di restare fuori tantissimi lavoratori, soprattutto di aree come quelle meridionali, Campania in primis. Afferma Mauro:“La firma congiunta rappresenterà anche la conclusione della vertenza ma il concetto di base è che noi siamo ex Olivetti, un progetto per cui sono stati investiti 550 miliardi di vecchie lire, e di questo progetto siamo stati derubati. Il nostro era un polo dove c’erano delle menti giovani, che oggi si ritrovano senza lavoro non per motivi congiunturali. La nostra situazione è figlia di un’azione criminale. Eppure nel 99-2000 era nostra la piattaforma realizzata per un importantissimo gruppo bancario italiano.. Eravamo leader nelle applicazioni software per lo sviluppo multimediale. Sviluppavamo progetti incredibili, si faceva formazione all’estero, avevamo 30 anni... Tutto gettato al vento come se 550 miliardi di vecchie lire non fossero niente. Non c’erano motivi per cui non potessero partire degli spin off.”

Le difficoltà attuali sono solo una piccola parte di un sentimento più variegato e complesso: “A 50 anni una ragione te la fai, anche se non si parla mai del lavoratore come portavoce di una professionalità acquisita. Io non ho nessuno tipo di rancore né di rabbia, guardo a quando sono entrato come progettista didattico in area multimediale: è stato un periodo magico, di grande coinvolgimento professionale. Quando tronchi un rapporto lavorativo, porti via un bene umano che è straordinario. Il discorso diventa riduttivo se, partendo dal fattore età, tutto si traduce esclusivamente nell’ottica di facilitazioni per chi assume i giovani, che pure devono entrare nel sistema. Un motore richiede “pistoni” nuovi e va bene, ma devi comprarteli tu azienda, sennò crei un rapporto di tossicità. L’imprenditoria deve smettere di essere 'prenditoria'".

Al tempo del dibattito sulla manovra, non mancano nemmeno i dubbi su quello che poteva essere: “Perché in questa riforma non hanno parlato, ad esempio, di quanto denaro investire per l’ingresso della banda larga nelle famiglie italiane? Se uno pensa a tutto l’indotto pazzesco, tanto più oggi che perfino gli anziani hanno cambiato approccio”. L’ultimo affondo è per il sindacato: “Noi siamo stati trattati con assoluto e totale disinteresse. Dopo tutto eravamo inquadrati come metalmeccanici ma per la Fiom eravamo dei colletti bianchi. Non sono mai venuti a misurarsi con noi, non capendo come mai non ci fosse tanta adesione: se non capisci che spirito animi il personale....Se fossero venuti a vedere chi eravamo forse le cose sarebbero andate diversamente”.